sabato 29 giugno 2013

A Proposito dei Costruttori del Medioevo di René Guénon


A Proposito dei Costruttori del Medioevo
 Da Studi sulla Massoneria ed il Compagnonnaggio 
René Guénon


Un articolo di Armand Bédarride, apparso nel numero di maggio 1929 de Le Symbolisme, e del quale abbiamo già parlato nelle nostre recensioni delle riviste, ci sembra possa dar luogo ad alcune utili riflessioni. Questo articolo, intitolato Les Idées des nos Précurseurs, tratta delle corporazioni del Medioevo, viste come le trasmettitrici del loro spirito e delle loro tradizioni alla Massoneria moderna.
Innanzi tutto, notiamo che la distinzione fra "Massoneria operativa" e "Massoneria speculativa" ci sembra debba essere intesa in un senso del tutto diverso da quello che ordinariamente le viene attribuito. In effetti, molto spesso ci si immagina che i Massoni "operativi" fossero solo dei semplici operai o artigiani, e niente di più, e si pensa che il simbolismo, nei suoi significati più o meno profondi, sia sopraggiunto solo tardivamente, in seguito all'ammissione nelle organizzazioni corporative di persone estranee all'arte del costruire. Questo, comunque, non è il caso di Bédarride, il quale invece cita un gran numero d'esempi, in particolare nei monumenti religiosi, di figure il cui carattere simbolico è incontestabile; in particolare egli parla delle due colonne della cattedrale di Würtzbourg, "che provano - dice - che i Massoni costruttori del XIV secolo praticavano un simbolismo filosofico", il che è esatto, ma, è ovvio, solo a condizione che lo si intenda nel senso di "filosofia ermetica" e non secondo l'accezione corrente; poiché allora si tratterebbe semplicemente della filosofia profana, la quale, fra l'altro, non ha mai fatto uso di un simbolismo qualunque. Gli esempi si potrebbero moltiplicare indefinitamente: la stessa pianta delle cattedrali è eminentemente simbolica, come abbiamo avuto modo di sottolineare in altre occasioni; e occorre aggiungere che, fra i simboli usati nel Medioevo, oltre a quelli di cui i Massoni moderni hanno conservato il ricordo, pur non comprendendone più il significato, ce ne sono molti altri di cui essi non hanno la minima idea1.
Secondo noi, occorre andare in qualche modo contro l'opinione corrente e considerare la "Massoneria speculativa", sotto molti aspetti, come una degenerazione della "Massoneria operativa". In effetti, quest'ultima era veramente completa nel suo ordine, dal momento che possedeva insieme la teoria e la pratica corrispondente; e questa sua denominazione, sotto questo aspetto, può essere intesa come un'allusione alle "operazioni" dell'"arte sacra", di cui la costruzione secondo le regole tradizionali era una delle applicazioni. Quanto alla "Massoneria speculativa", che d'altronde è nata nel momento in cui le corporazioni di costruttori erano in piena decadenza, la sua denominazione indica molto chiaramente che essa è limitata alla "speculazione" pura e semplice, vale a dire ad una teoria senza alcuna realizzazione; e certamente sarebbe un errore dei più strani se si volesse considerare un tal fatto come un "progresso". Se si fosse trattato solo di un impoverimento, il male non sarebbe poi così grande com'è in realtà, ma, come abbiamo detto più volte, all'inizio del XVIII secolo si è verificata in più una vera deviazione al momento della costituzione della Gran Loggia d'Inghilterra, la quale fu il punto di partenza di tutta la Massoneria moderna. Per il momento non insisteremo oltre, ma teniamo a sottolineare che, se si vuol comprendere veramente lo spirito dei costruttori del Medioevo, queste osservazioni sono del tutto essenziali; diversamente ci se ne fa un'idea falsa o, quanto meno, molto incompleta.
Un'altra idea che è altrettanto importante rettificare, è quella secondo la quale l'impiego di forme simboliche sarebbe stato semplicemente imposto da ragioni di prudenza. Che, talvolta, queste ragioni siano esistite non lo contestiamo, ma si tratta solo dell'aspetto più esteriore e meno interessante della questione; lo abbiamo già detto a proposito di Dante e dei "Fedeli d'Amore"2, e lo possiamo ripetere per ciò che riguarda le corporazioni dei costruttori, tanto più che han dovuto esserci dei legami molto stretti fra tutte queste organizzazioni, molto diverse in apparenza, ma tutte partecipi delle stesse conoscenze tradizionali3. Ora, il simbolismo è precisamente il modo d'espressione normale delle conoscenze di questo tipo, ed è questa la sua vera ragion d'essere, in tutti i tempi ed in tutti i paesi, anche lì ove non vi è proprio nulla da dissimulare; e questo, molto semplicemente, perché vi sono delle cose che, per loro stessa natura, non possono esprimersi altrimenti che sotto tale forma.
L'errore di cui si tratta, che si commette troppo spesso e di cui ritroviamo in un certo modo l'eco nell'articolo di Bédarride, ci sembra avere due cause principali: la prima è che, generalmente, si conosce molto male in che cosa consistesse il Cattolicesimo del Medioevo. Non bisogna dimenticare che, come vi è un esoterismo musulmano, all'epoca vi era anche un esoterismo cattolico, vale a dire un esoterismo che aveva il suo punto d'appoggio nei simboli e nei riti della religione cattolica e che si sovrapponeva a questa senza opporvisi in alcun modo; non c'è dubbio che certi ordini religiosi furono ben lontani dall'essere estranei a tale esoterismo. Se la tendenza della maggior parte dei Cattolici attuali è di negare l'esistenza di queste cose, ciò prova solamente che essi non sono meglio informati, a proposito, del resto dei nostri contemporanei.
La seconda causa dell'errore in questione consiste nel fatto di immaginare che ciò che si nasconde sotto i simboli siano quasi unicamente delle concezioni sociali o politiche4, in realtà si tratta di ben altro. Le concezioni di questo genere, agli occhi di coloro che possedevano certe conoscenze, potevano avere solo un'importanza parecchio secondaria, quella di una possibile applicazione fra tante altre; e aggiungiamo anche che ovunque hanno finito con l'occupare uno spazio troppo grande e col diventare predominanti, esse sono state invariabilmente una causa di degenerazione e di deviazione5. E non è esattamente questo che ha fatto perdere alla Massoneria moderna la comprensione di ciò che essa conserva ancora dell'antico simbolismo e delle tradizioni di cui sembra essere, bisogna ben dirlo, malgrado tutte le sue insufficienze, l'unica erede nel mondo occidentale? Se ci si obietta che, a riprova delle preoccupazioni sociali dei costruttori, esistono le figure satiriche e più o meno licenziose che si riscontrano talvolta nelle loro opere, è facile rispondere: queste figure sono destinate, soprattutto, a confondere i profani, i quali si fermano all'apparenza e non riescono a cogliere quello che di più profondo esse dissimulano. D'altronde, si tratta di qualcosa che è ben lungi dall'essere specifico dei costruttori; certi scrittori, come Boccaccio e Rabelais soprattutto, e molti altri ancora, hanno adottato la stessa finzione ed hanno usato lo stesso procedimento. C'è da credere che questo stratagemma sia ben riuscito, poiché ancora oggi, e senza dubbio più che mai oggi, i profani continuano a cascarci.
Se si vuole andare in fondo alla questione, occorre vedere nel simbolismo dei costruttori l'espressione di alcune scienze tradizionali, che si riallacciano a quello che, in maniera generale, si può indicare col nome di "ermetismo". Ora, dal momento che noi parliamo qui di "scienze", attenzione a non pensare che si tratti di qualcosa di paragonabile alla scienza profana, la sola conosciuta da quasi tutti i moderni; e sembra che una tale assimilazione traspaia anche in Bédarride, il quale parla di "forma mutevole delle conoscenze positive della scienza", il che si adatta propriamente ed esclusivamente alla scienza profana; e che, prendendo alla lettera delle immagini puramente simboliche, crede di scoprirvi delle idee "evoluzioniste" ed anche "trasformiste", idee che sono in totale contraddizione con ogni dato tradizionale. Già in molti nostri lavori abbiamo sviluppato a lungo la distinzione essenziale fra la scienza sacra o tradizionale e la scienza profana, e quindi non pensiamo di ripetere qui tutte quelle considerazioni, non di meno abbiamo ritenuto opportuno richiamare una volta di più l'attenzione su questo punto capitale.
E concludiamo in breve: non è senza ragione che Giano, presso i Romani, fosse insieme il dio dell'iniziazione ai misteri e il dio delle corporazioni di artigiani; e non è parimenti senza ragione che i costruttori del Medioevo conservassero le due feste solstiziali dello stesso Giano, feste divenute, col Cristianesimo, quelle dei due San Giovanni, d'inverno e d'estate; e quando si conosca il nesso esistente fra San Giovanni e l'aspetto esoterico del Cristianesimo, non si comprende immediatamente che in effetti si tratta sempre della stessa iniziazione ai misteri, pur celata sotto un nuovo adattamento richiesto dalle circostanze e dalle "leggi cicliche"?

Note
* A propos des constructeurs du Moyen Age, pubblicato ne Le Voile d'Isis, gennaio 1927.
1. Ultimamente, abbiamo avuto modo di rilevare, nella cattedrale di Strasburgo e in altri edifici dell'Alsazia, un gran numero di marchi di tagliatori di pietra, i quali risalgono ad epoche diverse, dal XII secolo fino all'inizio del XVII secolo; fra questi marchi ve ne sono alcuni molto curiosi, in particolare abbiamo ritrovato lo swastika, al quale allude Bédarride, in una delle torrette del campanile di Strasburgo.
2. Si veda Le Voile d'Isis, febbraio 1929. (Si tratta dell'art. Il Linguaggio Segreto di Dante e dei Fedeli d'Amore, oggi raccolto, come capp. IV e V, in Considerazioni sull'Esoterismo Cristiano, Arktos, Carmagnola - n.d.t.).
3. I Compagnoni del "Rito di Salomone" hanno conservato fino ad oggi il ricordo del loro legame con l'Ordine del Tempio.
4. Questo modo di vedere le cose è, in gran parte, quello di Aroux e di Rossetti per ciò che riguarda l'interpretazione di Dante, e lo si riscontra anche in molti passi della Storia della Magia di éliphas Levi.
5. In merito, è molto eloquente l'esempio di certe organizzazioni musulmane, in cui le preoccupazioni politiche hanno soffocato, in qualche modo, la originaria spiritualità.

mercoledì 26 giugno 2013

Demiurgo di Réne Guénon

Di tutti i problemi che costantemente hanno preoccupato gli uomini, ve ne è uno, quello dell’origine del male, che pare esser sempre stato il più difficile da risolvere, tanto da rivelarsi un ostacolo insormontabile per la maggior parte dei filosofi e soprattutto dei teologi: Si Deus est, unde Malum? Si non est, unde Bonum? Il dilemma è effettivamente insolubile per coloro che considerano la Creazione come l’opera diretta di Dio e che, di conseguenza, sono obbligati a ritenerlo responsabile sia del Bene che del Male. Si dirà senza dubbio che questa responsabilità è in una certa misura attenuata dalla libertà delle creature; ma se le creature possono scegliere tra il Bene ed il Male, è segno che entrambi esistono già, almeno in principio, e se esse talvolta sono piuttosto propense a decidersi per il Male invece di essere sempre portate al Bene, ciò è dovuto al fatto che sono imperfette; ma come ha potuto Dio, se è perfetto, creare esseri imperfetti
È evidente che il perfetto non può generare l’imperfetto, perché, se così fosse, il perfetto dovrebbe contenere in se stesso l’imperfetto allo stato principiale ed allora non sarebbe più il perfetto. L’imperfetto non può dunque procedere dal perfetto per via di emanazione; potrebbe solo risultare dalla creazione ex nihilo; ma com’è possibile ammettere che qualcosa possa venire dal nulla, o, in altri termini, che possa esistere qualcosa che non abbia un principio? D’altronde, l’ammettere la creazione ex nihilo equivarrebbe ad ammettere l’annientamento finale degli esseri creati, poiché ciò che ha avuto un inizio deve anche avere una fine, e non vi sarebbe nulla di più illogico del parlare in tal caso di immortalità; del resto la creazione così intesa non è che un’assurdità, perché essa contraddice quel principio di causalità che nessun uomo ragionevole può in buona fede negare, per cui possiamo dire con Lucrezio «Ex nihilo nihil, ad nihilum nil posse reverti».
Niente può esistete che non abbia un principio; ma qual è questo principio? e non vi è in realtà un principio unico di tutte le cose? Se si considera l’Universo totale, è evidente che esso comprende tutte le cose, perché tutte le parti sono contenute nel Tutto; d’altra parte, il Tutto è propriamente illimitato, perché, se avesse un limite, ciò che è al di là di questo limite non sarebbe compreso nel Tutto, supposizione, questa, assurda. Ciò che non ha limiti può essere chiamato l’Infinito, e, comprendendo esso tutto, questo Infinito è il principio di tutte le cose. D’altronde, l’Infinito è necessariamente unico, perché due infiniti che non fossero identici si escluderebbero a vicenda; ne consegue dunque che non vi è che un Principio unico di tutte le cose, e questo Principio è la Perfezione, poiché l’Infinito può esser tale solamente se esso è perfetto.
Così la Perfezione è il Principio supremo, la Causa prima; essa contiene tutte le cose in potenza, ed essa ha prodotto ogni cosa; ma allora, poiché non v’è che un Principio unico, che ne è di tutte le opposizioni che si colgono abitualmente nell’Universo: l’Essere ed il Non-Essere, lo Spirito e la Materia, il Bene ed il Male? Ci ritroviamo così di fronte alla domanda formulata all’inizio e che ora possiamo porre in un modo più generale: come ha potuto l’Unità produrre la Dualità?
Certuni hanno creduto di dover ammettere l’esistenza di due principi distinti, opposti l’uno all’altro; ma questa ipotesi è da scartarsi per quanto abbiamo precedentemente detto. Infatti questi due principi non possono essere entrambi infiniti, perché allora si escluderebbero a vicenda o si confonderebbero; se solo uno fosse infinito, esso sarebbe il principio dell’altro; e, se entrambi fossero finiti, non sarebbero veri principi, poiché dire che il finito può esistere di per se stesso equivarrebbe a sostenere che qualcosa possa venire dal nulla: infatti tutto ciò che è finito ha un inizio, logico anche se non cronologico. In tal caso, essendo entrambi finiti, essi devono procedere da un principio comune, quest’ultimo infinito, e così siamo ricondotti a considerare un Principio unico. Del resto, molte dottrine, abitualmente ritenute «dualistiche», non lo sono che apparentemente; nel Manicheismo, così come nella religione di Zoroastro, il dualismo era una dottrina puramente exoterica che celava la vera dottrina esoterica dell’Unità: Ormuzd e Ahriman sono entrambi generati da Zervané-Akerene e dovranno fondersi in lui alla fine dei tempi.
La Dualità, nell’impossibilità di esistere di per stessa, è dunque necessariamente prodotta dall’Unità; ma in che modo può prodursi? Per comprenderlo dobbiamo anzitutto considerare la Dualità nel suo aspetto meno particolaristico, quello dell’opposizione tra l’Essere ed il Non-Essere; ma poiché l’uno e l’altro sono necessariamente contenuti nella Perfezione totale, appare subito evidente che tale opposizione non può essere che apparente. Sarebbe dunque più giusto parlare solo di distinzione; ma in cosa consiste tale distinzione? esiste in realtà indipendentemente da noi, od è semplicemente una conseguenza del nostro modo di vedere le cose?
Se per Non-Essere si intende il nulla, è inutile parlarne: infatti cosa si può dire del nulla? Non così se si considera il Non-Essere come possibilità d’Essere; l’Essere è allora la manifestazione del Non-Essere inteso in questo modo, ed è contenuto allo stato potenziale in tale Non-Essere. Il rapporto tra il Non-Essere e l’Essere è dunque il rapporto tra il non-manifestato ed il manifestato, e si può affermare che il non-manifestato è superiore al manifestato, di cui è il principio, poiché contiene in potenza tutto il manifestato ed anche ciò che non è, che non fu, né sarà mai manifestato. Nello stesso tempo, è evidente che non si può parlare qui di una distinzione reale, poiché il manifestato è contenuto in principio nel non-manifestato; tuttavia, noi non possiamo concepire direttamente il non-manifestato se non attraverso il manifestato; questa distinzione dunque esiste, ma unicamente per noi.
Se ciò vale per la Dualità colta nel suo aspetto di distinzione tra l’Essere ed il Non-Essere, a maggior ragione varrà per tutti gli altri aspetti della Dualità. A questo punto ci si accorge quanto illusoria sia la distinzione tra Spirito e Materia, sulla quale nondimeno, soprattutto nei tempi moderni, è stato costruito un così gran numero di sistemi filosofici aventi appunto tale distinzione a fondamento delle loro teorie, va da sé che se tale distinzione venisse meno, nulla più rimarrebbe di tutti questi sistemi. Inoltre possiamo notare che la Dualità non può esistere senza il Ternario: se il Principio supremo, differenziandosi, dà luogo a due elementi, i quali del resto sono distinti solo in quanto li reputiamo tali, questi due elementi ed il loro Principio comune formano un Ternario, sicché in realtà è il Ternario e non il Binario ad essere immediatamente prodotto dalla prima differenziazione dell’Unità primordiale.
Ritorniamo ora alla distinzione tra il Bene ed il Male, la quale è appunto un aspetto particolare della Dualità. Quando si oppone il Bene al Male, generalmente si fa consistere il Bene nella Perfezione. o quantomeno in una tendenza alla Perfezione, ed allora il Male non è nient’altro che l’imperfezione: ma come può l’imperfetto opporsi alla Perfezione, Abbiamo visto che la Perfezione è il principio di tutte le cose e che, d’altra parte, non può produrre l’imperfetto, donde risulta che in realtà l’imperfetto non esiste, o almeno non può esistere che come elemento costitutivo della Perfezione totale; ma allora esso non può essere realmente imperfetto, e quel che noi chiamiamo imperfezione non è che relatività. Per cui un «errore» non è che una verità relativa: tutti gli errori, infatti, devono essere contenuti nella Verità totale, poiché, diversamente, questa trovandosi limitata da qualcosa di esteriore a se stessa non sarebbe perfetta, cioè non sarebbe la Verità. Gli errori, o piuttosto le verità relative, non sono che frammenti della Verità totale; è dunque la frammentazione a produrre la relatività, per cui la si potrebbe ritenere la causa del Male, sempre che «relatività» fosse realmente sinonimo di «imperfezione»; sennonché il Male non è tale se non quando lo si distingue dal Bene.
D’altra parte, se si chiama Bene il Perfetto, il relativo non ne è realmente distinto, poiché v’è contenuto in principio; dunque, dal punto di vista universale, il Male non esiste. Esso esiste solo, se si considerano le cose sotto un aspetto frammentario ed analitico, separandole dal loro Principio comune invece di vederle sinteticamente contenute in questo Principio, che è la Perfezione. Così si crea l’imperfetto; e distinguendo il Male dal Bene, li si crea entrambi proprio con questa distinzione, poiché il Bene ed il Male sono tali solamente se messi in opposizione l’uno all’altro; inoltre, se il Male non esiste, non si può neppure parlare di Bene nel senso ordinariamente attributo a questa parola, ma solamente di Perfezione. È dunque la fatale illusione del Dualismo ad attuare il Bene ed il Male, ossia, considerando le cose da un punto di vista particolare, a sostituire la Molteplicità all’Unità, imprigionando così gli esseri su cui esercita il suo potere nel dominio della confusone e della divisione: tale dominio è l’Impero del Demiurgo.
II
Quanto abbiamo detto sulla distinzione tra il Bene ed il Male permette di comprendere il simbolismo della Caduta originale, almeno nella misura in cui queste cose possono venir espresse. La frammentazione della Verità totale, o del Verbo, che è in fondo la stessa cosa, frammentazione che produce la relatività, è identica alla segmentazione dell’Adam Kadmon, le cui separate particelle costituiscono l’Adam Protoplastes, cioè il primo formatore; la causa di tale segmentazione è Nahash, l’Egoismo o il desiderio dell’esistenza individuale. Nahash non è affatto una causa esteriore all’uomo, ma è in lui, inizialmente allo stato potenziale, diventandogli esteriore nella misura in cui l’uomo stesso l’esteriorizza; questo istinto di separatività, per la sua natura di provocatore di divisione, spinge l’uomo a gustare del frutto dell’Albero della Scienza del Bene e del Male. Allora gli occhi dell’uomo si aprono, perché ciò che era interiore è diventato esteriore in conseguenza della separazione che si è prodotta tra gli esseri; questi appaiono allora rivestiti di forme, le quali limitano e definiscono le loro esistenze individuali; e l’uomo pure è rivestito di una forma, o, secondo l’espressione biblica, di una «tunica di pelle»; egli si trova così racchiuso nel dominio del Bene e del Male, nell’Impero del Demiurgo.
Da questa breve esposizione per sommi capi e molto incompleta, risulta che il Demiurgo non è affatto una potenza esteriore all’uomo: non è che la stessa volontà dell’uomo allorquando realizza la distinzione tra il Bene ed il Male. Ma in seguito, limitato in quanto essere individuale da quella volontà che in realtà è la sua, l’uomo la ritiene come qualcosa di esteriore, e così essa diventa distinta da lui, non solo, ma opponendosi essa agli sforzi che l’uomo compie per uscire dal dominio in cui s’è egli stesso racchiuso, egli la considera come una potenza ostile, e la chiama Shaitan, l’Avversario. Facciamo notare, del resto, che questo Avversario, che noi stessi abbiamo creato e che creiamo ad ogni istante (infatti non si deve pensare che la cosa si svolga in un tempo o in un luogo determinato) non è affatto cattivo in se stesso, ma è solamente l’insieme di tutto ciò che ci è contrario.
Da un punto di vista più generale, il Demiurgo, quale potenza distinta ed in quanto tale, è appunto il «Principe di questo Mondo» di cui si parla nel Vangelo di S. Giovanni; anche qui, egli non è propriamente parlando né buono né cattivo, o piuttosto egli è l’uno e l’altro, poiché contiene in se stesso il Bene ed il Male. Il suo dominio è il Mondo inferiore, che si oppone al Mondo superiore o all’Universo principiale da cui è stato separato, ma occorre rilevare che questa separazione non è mai stata reale in senso assoluto; essa è reale solo nella misura in cui la realizziamo, perché questo Mondo inferiore è contenuto allo stato potenziale nell’Universo principiale, essendo evidente che una parte non può realmente uscire dal Tutto. È questo, d’altronde, che impedisce alla Caduta di continuare indefinitamente: questa è un’espressione del tutto simbolica, e la profondità della Caduta è semplicemente la misura del grado di separazione. Con questa restrizione, il Demiurgo si oppone all’Adam Kadmon o all’Umanità principiale, manifestazione del Verbo, solamente come una sorta di riflesso, poiché non ne è affatto un’emanazione e non esiste di per se stesso; ciò è rappresentato dalla figura dei due Vegliardi dello Zohar e anche dai due triangoli del Sigillo di Salomone.
Ciò ci induce a considerare il Demiurgo come un riflesso tenebroso ed invertito dell’Essere, poiché altro non può essere in realtà. Esso non è dunque un essere, ma, secondo quanto abbiamo precedentemente detto, può venire inteso come la collettività degli esseri nella misura in cui essi sono distinti o, se si preferisce, in quanto essi hanno un’esistenza individuale. Noi siamo esseri distinti perché creiamo noi stessi la distinzione, la quale non esiste se non nella misura in cui la creiamo; creando questa distinzione, siamo gli elementi del Demiurgo, e, fintantoché siamo esseri distinti, apparteniamo al dominio di questo stesso Demiurgo, il quale è appunto la «Creazione».
Tutti gli elementi della Creazione, cioè le creature, sono dunque contenuti nel Demiurgo, stesso, il quale non può trarli che da se stesso, perché la creazione ex nihilo è impossibile. Considerato come Creatore, il Demiurgo produce per prima cosa la divisione, dalla quale non è realmente distinto, poiché egli non esiste che nella misura in cui la divisione stessa esiste; inoltre, siccome la divisione è la fonte dell’esistenza individuale, ed essendo questa definita dalla forma, il Demiurgo deve essere considerato come formatore, ed allora egli è identico all’Adam Protoplastes, così come già abbiamo visto. Si può ancora dire che il Demiurgo crea la Materia ‑ intendendo con questa parola il caos primordiale, crogiuolo di tutte le forme – per poi organizzare questa Materia caotica e tenebrosa, ove regna la confusione, e farne scaturire le molteplici forme il cui insieme costituisce la Creazione.
Si deve ora dire che questa Creazione sia imperfetta? Certamente non la si può considerare perfetta; ma se ci si pone dal punto di vista universale, essa è uno degli elementi costitutivi della Perfezione totale. La Creazione è imperfetta solo se la si considera analiticamente e separata dal suo Principio, e lo è d’altronde nella misura stessa in cui essa è il dominio del Demiurgo; ma, se l’imperfetto non è che un elemento del Perfetto, esso non sarà veramente imperfetto, per cui in realtà il Demiurgo ed il suo dominio non esistono, dal punto di vista universale, così come non esiste la distinzione tra il Bene e il Male. Ne consegue pure, sempre dallo stesso punto di vista, che la Materia non esiste: l’apparenza materiale non è che un’illusione, anche se non bisogna concludere che gli esseri che hanno questa apparenza non esistano, perché altrimenti si cadrebbe in un’altra illusione, quella di un idealismo esagerato e mal compreso.
Se la Materia non esiste, per ciò stesso sparisce la distinzione tra Spirito e Materia. Tutto è Spirito in realtà, ma questo termine deve essere inteso in un senso del tutto diverso da quello attribuitogli dalla maggioranza dei filosofi moderni. Costoro, infatti, pur opponendo lo Spirito alla Materia, non lo considerano affatto indipendente dalla forma, per cui si può domandare in che cosa esso si differenzi dalla Materia; e se si afferma che esso è inesteso, a differenza della Materia che è estesa, come si può sostenere che l’inesteso possa esser rivestito di una forma? Del resto, perché questo volere definire lo Spirito? Che ciò avvenga con il pensiero o altrimenti, è sempre con una forma che si cerca di definirlo, ed allora non si tratterà più dello Spirito. In realtà, lo Spirito universale è l’Essere, e non questo o quell’altro essere particolare; è il Principio di tutti gli esseri, e tutti li contiene: perciò tutto è Spirito.
Quando l’uomo perviene alla conoscenza reale di questa verità, identifica se stesso ed ogni cosa allo Spirito Universale, ed allora ogni distinzione per lui scompare, ed egli contempla tutte le cose come in se stesso e non più come esteriori, perché l’illusione svanisce di fronte alla Verità, come l’ombra davanti al sole. Così, da questa stessa conoscenza l’uomo si trova liberato dai legami della Materia e dell’esistenza individuale, non è più soggetto alla dominazione del «Principe di questo Mondo», egli non appartiene più all’Impero del Demiurgo.
III
Da quanto detto in precedenza risulta che l’uomo, nella sua esistenza terrestre, può liberarsi dal dominio del Demiurgo o del Mondo ilico e che questa liberazione si opera mediante la Gnosi, cioè mediante la Conoscenza integrale. Tale Conoscenza non ha niente in comune con la scienza analitica e non la presuppone per nulla. È un’illusione troppo diffusa ai giorni nostri credere che si possa arrivare alla sintesi totale attraverso l’analisi; al contrario, la scienza è del tutto relativa e, limitata com’è al solo Mondo ilico, non esiste più di quanto esista quest’ultimo, dal punto di vista universale. D’altra parte dobbiamo anche notare che i differenti Mondi, o secondo l’espressione generalmente ammessa, i diversi piani dell’Universo, non sono affatto luoghi o regioni, ma modalità dell’esistenza o stati dell’essere. Il che permette di comprendere come un uomo vivente sulla terra possa, in realtà, appartenere non soltanto al Mondo ilico, ma al Mondo psichico o anche al Mondo pneumatico. Ed è questo che costituisce la «seconda nascita»; tuttavia, essa corrisponde propriamente parlando solo alla nascita al Mondo psichico, mediante la quale l’uomo diventa cosciente in entrambi questi due piani, ma senza accedere ancora al Mondo pneumatico, cioè senza identificarsi allo Spirito universale. Quest’ultimo viene raggiunto unicamente da chi possiede integralmente la triplice Conoscenza, mediante la quale è per sempre Liberato dalle nascite mortali: è ciò che si intende con l’espressione «solo i Pneumatici sono salvati». Lo stato degli Psichici non è insomma che uno stato transitorio: è lo stato dell’esser già preparato a ricevere la Luce, pur non percependola ancora, che non ha ancora preso coscienza della Verità una ed immutabile.
Parlando di nascite mortali, intendiamo le modificazioni dell’essere, il suo passaggio attraverso forme molteplici e variabili; in ciò non vi è nulla che rassomigli alla dottrina della reincarnazione quale la concepiscono gli spiritisti ed i teosofisti, dottrina della quale un giorno avremo l’occasione di dare maggiori spiegazioni. Il Pneumatico è liberato dalle nascite mortali, è cioè liberato dalla forma, dunque dal mondo demiurgico; egli non è più soggetto al cambiamento e, di conseguenza, egli è non agente; su questo punto ritorneremo più avanti. Lo Psichico, invece, non va oltre il Mondo della Formazione, quello che è designato simbolicamente come il Primo Cielo o la sfera della Luna, donde egli ritorna al mondo terrestre; ciò, in realtà, non significa che assumerà un corpo sulla Terra, ma semplicemente ch’egli dovrà rivestire nuove forme prima di ottenere la Liberazione.
Quanto abbiamo sin qui esposto dimostra l’accordo, anzi, l’identità reale, nonostante certe differenze nell’espressione, tra la dottrina gnostica e le dottrine orientali, e più particolarmente con il Vêdânta; il più ortodosso di tutti i sistemi metafisici fondati sul Brahmanesimo. Possiamo quindi completare le nostre considerazioni riguardanti i diversi stati dell’essere con alcune citazioni tratte dal Trattato della Conoscenza dello Spirito di Shankarâchârya.
«Non vi è altro mezzo se non la Conoscenza per ottenere la liberazione completa e finale; essa è il solo strumento che scioglie i legami delle passioni; senza la Conoscenza, la Beatitudine non può esser ottenuta.
«L’azione, non opponendosi all’ignoranza, non può rimuoverla; ma la Conoscenza dissolve l’ignoranza così come la Luce dissipa le tenebre».
L’ignoranza è qui lo stato dell’essere avvolto nelle tenebre del Mondo ilico, legato all’apparenza illusoria della Materia e alle distinzioni individuali; come abbiamo già visto, tutte queste illusioni scompaiono per mezzo della Conoscenza, la quale non appartiene affatto al dominio dell’azione e le è superiore.
«Quando l’ignoranza che nasce dagli attaccamenti terrestri viene allontanata, lo Spirito brilla di splendore suo proprio in uno stato indiviso, così come il sole risplende nel cielo allorquando le nubi si sono disperse».
Ma, prima di pervenire a questo grado, l’essere passa attraverso uno stato intermedio, quello corrispondente al Mondo psichico, ove egli non crede più di essere il corpo materiale bensì l’anima individuale; nondimeno la distinzione continua per lui a sussistere, poiché non è ancora uscito dal dominio del Demiurgo.
«Immaginando d’essere l’anima individuale, l’uomo è colto dalla paura, come chi per errore scambia un pezzo di corda per un serpente; tuttavia il suo timore viene allontanato dalla percezione che egli non è l’anima, ma lo Spirito universale».
Colui che ha preso coscienza dei due Mondi manifestati, cioè del Mondo ilico, ossia l’insieme delle manifestazioni grossolane a materiali, e del Mondo psichico, ossia l’insieme delle manifestazioni sottili, è un «nato due volte», Dwija; ma colui che è cosciente dell’Universo non-manifestato o del Mondo senza forma, cioè del Mondo pneumatico, e che è arrivato alla identificazione di se stesso con lo Spirito universale, Âtmâ: quegli solo può esser chiamato Yogi, cioè «unito» allo Spirito universale.
«Lo Yogi, il cui intelletto è perfetto, contempla tutte le cose in quanto facenti parte di se stesso, e così, con l’occhio della Conoscenza, percepisce che ogni cosa è Spirito».
Notiamo per inciso che il Mondo ilico viene paragonato allo stato di veglia, il Mondo psichico allo stato di sogno, ed il Mondo pneumatico allo stato di sonno profondo. Al di sopra dell’Universo pneumatico, secondo la dottrina gnostica, vi è il Pleroma, il quale può esser inteso come costituito dall’insieme degli attributi della Divinità. Esso non è un quarto Mondo, ma lo Spirito universale stesso, Principio supremo dei Tre Mondi, né manifestato, né non-manifestato, indefinibile, inconcepibile e incomprensibile.
Lo Yogi, o il Pneumatico, che sono in fondo la stessa cosa, si percepisce, non più come una forma grossolana, né come una forma sottile, ma come un essere senza forma; egli si identifica allora allo Spirito universale, stato che è così descritto da Shankarâchârya:
«Egli è Brahma, dopo il cui possesso non vi è più nulla da possedere; dopo il godimento della cui felicità non v’è altra felicità che possa esser desiderata; e dopo l’ottenimento della cui conoscenza non v’è altra conoscenza che possa esser ottenuta.
«Egli è Brahma, la cui vista elimina quella di ogni altro oggetto, l’identificazione con il quale impedisce ogni ulteriore nascita, dopo la cui percezione, non v’è più nulla da percepire.
«Egli è Brahma, che è dovunque: nello spazio mediano, in ciò che gli è superiore ed in ciò che gli è inferiore. Egli è il Vero, il Vivente, il Beato, senza dualità, indivisibile, eterno ed unico.
«Egli è Brahma, senza dimensioni, increato, incorruttibile, senza forma, senza qualità o caratteristiche.
«Egli è Brahma, dal quale tutte le cose sono illuminate, la cui luce fa brillare il sole e gli altri corpi luminosi, ma che non è punto reso manifesto dalla loro luce.
«Egli stesso penetra la sua propria essenza eterna e contempla il Mondo intero apparendo come Brahma.
«Brahma non rassomiglia affatto al Mondo, e al di fuori di Brahma non vi è nulla; tutto ciò che sembra esistere al di fuori di Lui è un’illusione.
«Di tutto quanto viene visto, di tutto quanto viene udito, nulla esiste che non sia Brahma, e, mediante la conoscenza del Principio, Brahma viene contemplato come l’Essere vero, vivente, beato, senza dualità.
«L’occhio della Conoscenza contempla l’Essere vero, vivente, beato, che tutto penetra; ma l’occhio dell’ignoranza non può scoprirlo, né percepirlo, come il cieco non può vedere la luce.
«Quando il Sole della Conoscenza spirituale sorge nel cielo del cuore, esso scaccia le tenebre e tutto penetra abbracciando ed illuminando ogni cosa».
Facciamo notare che il Brahma di cui si parla qui è il Brahma superiore, da non confondere con il Brahma inferiore, il quale non è altro che il Demiurgo, considerato come riflesso dell’Essere. Per lo Yogi, non vi è che il Brahma superiore, che contiene tutte le cose e al di fuori del quale non v’è nulla: per lui, il Demiurgo e la sua opera di divisone non esistono più.
«Colui che ha compiuto il pellegrinaggio del suo proprio spirito, un pellegrinaggio che nulla ha a che vedere con lo spazio e con il tempo, un pellegrinaggio che si svolge dappertutto, nel quale non si prova né il freddo, né il caldo, che procura una felicità perpetua e una liberazione da ogni pena: quegli è senza azione, conosce tutte le cose, ed ottiene l’eterna Beatitudine».
IV
Dopo aver esposto le caratteristiche dei tre Mondi e degli stati dell’Essere che vi corrispondono, ed aver indicato, per quanto possibile, che cosa sia l’essere liberato dalla dominazione demiurgica, dobbiamo nuovamente ritornare sulla questione della distinzione tra il Bene ed il Male, onde vedere quali conseguenze possano trarsi da queste ultime considerazioni.
Di primo acchito si potrebbe esser tentati di pensare così: se la distinzione tra il Bene ed il Male è illusoria, se essa in realtà non esiste, lo stesso può dirsi della morale, poiché la morale si fonda proprio su tale distinzione. Ma sarebbe andar troppo lontano. La morale esiste, ma nella stessa misura in cui esiste la distinzione tra il Bene ed il Male, cioè relativamente al dominio del Demiurgo, mentre dal punto di vista universale, essa non ha alcuna ragione d’essere. Infatti la morale può trovare applicazione solo nell’azione; l’azione presuppone il cambiamento, il quale non è possibile che nel formale o nel manifestato; per contro, il Mondo senza forma è immutabile, superiore al cambiamento, e quindi anche all’azione, perciò l’essere che non appartiene più all’Impero del Demiurgo è senza azione.
Ciò dimostra che occorre fare molta attenzione a non confondere i diversi piani dell’Universo, perché quel che si afferma a proposito di un piano può non esser vero per un altro. Ad esempio, la morale esiste necessariamente nel piano sociale, che è essenzialmente il dominio dell’azione, mentre non se ne può più parlare quando si passa a considerare il piano metafisico o universale, poiché allora non v’è più alcun genere di azione.
Chiarito questo punto, dobbiamo far rilevare che l’essere che è superiore all’azione possiede tuttavia la pienezza dell’attività; ma si tratta di un’attività potenziale, quindi di un’attività che non si esplica in azioni. Questo essere non è affatto immobile, come a torto si potrebbe dire, ma immutabile, cioè superiore al cambiamento. In effetti, egli si identifica con l’Essere, il quale è sempre identico a se stesso conformemente all’espressione biblica: «L’Essere è l’Essere». Il che ci induce ad un accostamento con la dottrina taoista, secondo la quale l’attività del Cielo è non-agente: il Saggio, in cui si riflette l’Attività del Cielo, si attiene al non-agire. Tuttavia questo Saggio, che in precedenza abbiamo chiamato Pneumatico o Yogi, può presentare le apparenze dell’azione, così come la Luna può assumere le apparenze del movimento allorquando le nubi le passano davanti, ma il vento che sospinge le nubi non ha influenza alcuna sulla Luna. Similmente, l’agitazione del Mondo demiurgico non influisce sul Pneumatico, e, a questo proposito, possiamo ancora citare alcuni passi di Shankarâchârya:
«Lo Yogi, avendo attraversato il mare delle passioni, si unisce alla Tranquillità e si allieta nello Spirito.
«Avendo rinunciato ai piaceri offerti dagli oggetti perituri e godendo delle delizie spirituali, egli è calmo e sereno come la fiamma di una lampada, e si delizia nella sua propria essenza.
«Durante la sua permanenza nel corpo, non è modificato dalle proprietà di questo, così come il firmamento non è turbato dal movimento che si svolge nel suo seno; conoscendo tutte le cose, le contingenze non lo toccano».
Possiamo così comprendere il vero significato della parola Nirvâna, di cui sono state date tante e così false interpretazioni. Essa significa letteralmente «cessazione del soffio e dell’agitazione», dunque lo stato di un essere che non è più soggetto all’agitazione, che è definitivamente libero dalla forma. Un errore molto diffuso, almeno in Occidente, è quello di ritenere che non vi sia più nulla quando si sia in assenza di una forma, mentre, in realtà, la forma è nulla e l’informale è tutto; per cui il Nirvâna, lungi dall’essere l’annientamento, come hanno preteso certi filosofi, è. al contrario la pienezza dell’essere.
Da tutto quanto abbiamo sinora esposto si potrebbe concludere che non occorra affatto agire; ma ciò è ancora inesatto, se non in principio, almeno nell’applicazione che se ne vorrebbe fare. Infatti l’azione è propriamente la condizione degli esseri individuali appartenenti all’Impero del Demiurgo. Il Pneumatico, o il Saggio, è in realtà senza azione, ma, risiedendo in un corpo, è del tutto simile agli altri uomini; tuttavia sa che si tratta solo di un’apparenza illusoria, e ciò è sufficiente affinché egli sia realmente affrancato dall’azione, poiché è mediante la Conoscenza che si ottiene la Liberazione. Essendo affrancato dall’azione, non è più soggetto alla sofferenza; questa non è che un risultato dello sforzo, ed è in ciò che consiste la cosiddetta imperfezione, anche se in realtà non vi è nulla di imperfetto.
È evidente che l’azione non può esistere per colui che contempla tutte le cose in se stesso, come esistenti nello Spirito universale, senza che vi si distinguano oggetti individuali, così come è espresso dalle seguenti parole dei Vêda: «Gli oggetti differiscono solamente per i loro nomi, accidenti e designazioni, così come le suppellettili ricevono nomi differenti, sebbene siano in realtà solamente diverse forme di terra». La terra, principio di tutte queste forme, è di per se stessa senza forma, ma tutte le contiene in potenza: tale è anche lo Spirito universale.
L’azione implica il cambiamento, cioè la distruzione incessante di forme che scompaiono per essere sostituite da altre: tali sono le modificazioni che noi chiamiamo nascita e morte, cioè i molteplici cambiamenti di stato che devono essere attraversati dall’essere che non ha ancora raggiunto la liberazione o la «trasformazione» finale, parola, questa, da intendersi nel suo significato etimologico, che è quello di passaggio al di là della forma. L’attaccamento alle cose individuali, o alle forme transitorie e periture è proprio dell’ignoranza; le forme non sono niente per l’essere che è liberato dalla forma, ed è per questo motivo che egli, anche durante la permanenza nel corpo, non è modificato dalle proprietà di quest’ultimo.
«Così egli si muove, libero come il vento, poiché i suoi movimenti non sono ostacolati dalle passioni.
«Quando le forme sono distrutte, lo Yogi entra, con tutti gli esseri, nell’Essenza che tutto penetra. Egli è senza qualità e senza azione; imperituro, senza volizione; felice, immutabile, eternamente libero e puro.
«Egli è come l’etere che è diffuso dappertutto, e che penetra nel contempo l’esterno e l’interno delle cose; egli è incorruttibile, imperituro; egli è sempre lo stesso in tutte le cose, puro, impassibile, senza forma, immutabile,
«Egli è il supremo Brahma, che è eterno, puro, libero, solo, incessantemente colmo di beatitudine, senza dualità, Principio di ogni esistenza, e senza fine».
Questo è lo stato al quale perviene l’essere mediante la Conoscenza spirituale, liberato per sempre dalle condizioni dell’esistenza individuale, liberato cioè dall’Impero del Demiurgo.
Pubblicato nel 1909 nel n. 1 di La Gnose. L’Autore, allora ventiduenne, firmava con lo pseudonimo di Palingenius. (R.S.T., n. 33)

martedì 25 giugno 2013

CARATTERI ESSENZIALI DELLA METAFISICA di René Guénon






CARATTERI ESSENZIALI DELLA METAFISICA
 
                                      di René Guénon
 
 

Mentre il punto di vista religioso implica essenzialmente l'intervento di un elemento di ordine sentimentale, il punto di vista metafisico è esclusivamente intellettuale; ma questo, quantunque abbia per noi un significato nettissimo, a molti potrebbe sembrare che non caratterizzi sufficientemente il punto di vista in questione, poco familiare agli occidentali, se non ci dessimo la pena di precisarlo ulteriormente. Anche la scienza e la filosofia, infatti, quali esistono nel mondo occidentale, hanno pretese di intellettualità; se neghiamo che queste pretese siano fondate e affermiamo che esiste una differenza delle più profonde tra tutte le speculazioni di questo genere e la metafisica, è perché l'intellettualità pura, nel senso in cui noi la consideriamo, è tutt'altra cosa da quel che di solito s'intende, in modo più o meno vago, con tale parola.

Dobbiamo dire subito che quando usiamo il termine" metafisica", come facciamo, poco ci importa la sua origine storica, che è alquanto dubbia e che sarebbe puramente fortuita se si dovesse ammettere l'opinione, peraltro poco verosimile ai nostri occhi, secondo la quale avrebbe designato, in principio, semplicemente ciò che veniva "dopo la fisica" nella raccolta delle opere di Aristotele. Ne dobbiamo curarci delle accezioni diverse e più o meno abusive che taluni hanno creduto bene di attribuire alla parola nel corso del tempo; questi non sono motivi sufficienti a indurci ad abbandonarla perché, così com'è, essa è troppo adatta a quel che normalmente deve designare, almeno per quanto può esserlo un termine desunto dalle lingue occidentali. In effetti, il suo significato più naturale, anche etimologicamente, è quello secondo cui designa ciò che è "al di là della fisica", intendendo per "fisica", come sempre facevano gli antichi, l'insieme di tutte le scienze della natura, considerato in una maniera del tutto generale, e non semplicemente una di queste scienze in particolare, secondo l'accezione ristretta che è propria dei moderni. Questa è dunque la nostra interpretazione del termine "metafisica" , e sia detto una volta per tutte che se ci teniamo è unicamente per la ragione or ora indicata e perché pensiamo che è sempre disdicevole ricorrere a neologismi se non in casi di assoluta necessità.

Diremo ora che la metafisica, così intesa, è essenzialmente la conoscenza dell'universale, o, se si vuole, dei princìpi di ordine universale, che del resto sono gli unici a cui convenga propriamente il nome di princìpi; ma non vogliamo dare con ciò una vera e propria definizione della metafisica, cosa che, a rigore, è impossibile proprio a causa di questa stessa universalità che consideriamo il primo dei suoi caratteri, quello da cui tutti gli altri discendono. In realtà non è definibile se non ciò che è limitato, e la metafisica è al contrario, nella sua essenza stessa, assolutamente illimitata, ciò che non permette evidentemente di racchiuderne la nozione in una formula più o meno stretta; in questo caso una definizione sarebbe tanto più inesatta quanto più ci si sforzasse di renderla precisa.

È importante osservare che abbiamo detto conoscenza e non scienza; vogliamo con ciò sottolineare la distinzione profonda che bisogna necessariamente stabilire tra la metafisica da un lato e, dall'altro, le differenti scienze nel senso proprio della parola, vale adire tutte le scienze particolari e specializzate che hanno come oggetto di indagine un certo aspetto delle cose individuali. Questa è dunque, in fondo, la distinzione stessa tra l'universale e l'individuale, distinzione che non deve essere intesa come un'opposizione, perché tra i suoi due termini non esiste misura comune ne alcuna relazione di simmetria o di possibile coordinazione. D'altronde, tra la metafisica e le scienze non può sussistere opposizione o conflitto di sorta, precisamente perché i loro àmbiti rispettivi sono profondamente separati; ed esattamente lo stesso avviene, del resto, in rapporto alla religione. Tuttavia è opportuno capire bene che detta separazione non si riferisce tanto alle cose in se quanto ai punti di vista da cui noi consideriamo le cose; e ciò è particolarmente importante per quanto diremo più specificamente sulla "fisica" e su come devono essere concepiti i reciproci rapporti dei diversi rami della dottrina indù. E facile rendersi conto che uno stesso oggetto può essere studiato da differenti scienze sotto aspetti diversi; allo stesso modo, tutto quanto consideriamo da certi punti di vista individuali e specifici può essere, per mezzo di una trasposizione adeguata, considerato anche dal punto di vista universale - che non è d'altronde un punto di vista specifico - allo stesso modo in cui può esserlo quanto non è suscettibile di essere inteso in modo individuale. Così si può dire che il dominio della metafisica comprende tutto, il che è necessario perché essa sia veramente universale, come deve esserlo essenzialmente; e i dominii propri alle differenti scienze non restano per ciò meno distinti da quello della metafisica, dal momento che quest'ultima, non ponendosi sullo stesso terreno delle scienze particolari, in nessun modo può essere un loro analogo, sicché non potrà mai darsi che si stabilisca alcuna comparazione tra i risultati dell'una e quelli delle altre. Del resto il dominio della metafisica non è per nulla, come pensano alcuni filosofi che al riguardo sono piuttosto ottusi, quello che le diverse scienze lasciano da parte perché il loro sviluppo attuale è più o meno incompleto, ma piuttosto quello che, per sua stessa natura, sfugge a queste scienze e supera di gran lunga la portata a cui possono legittimamente pretendere. Il dominio di ogni scienza è sempre circoscritto dall'esperienza, in una qualunque delle sue diverse modalità, mentre il dominio della metafisica è costituito essenzialmente da ciò per cui non può esserci esperienza possibile: essendo "al di là della fisica", siamo anche, e proprio per questa ragione, al di là dell'esperienza. Di conseguenza l'àmbito di ogni scienza particolare può estendersi indefinitamente, se ne è suscettibile, senza mai giungere ad avere il sia pur minimo punto di contatto con quello della metafisica.
Consegue immediatamente da quanto precede che parlando dell'oggetto della metafisica non si deve pensare a qualcosa di più o meno analogo all'oggetto particolare di una certa scienza. Consegue anche che tale oggetto deve essere sempre assolutamente lo stesso, che non può in alcun modo essere qualcosa di mutevole e soggiacente alle influenze di tempo e di luogo; il contingente, l'accidentale, il variabile appartengono in proprio all'àmbito dell'individuale; sono anzi dei caratteri che condizionano necessariamente le cose individuali in quanto tali, o, per esprimersi con più rigore, l'aspetto individuale delle cose nelle sue molteplici modalità. Quindi, quando si tratta di metafisica, con il tempo e il luogo possono cambiare solo i modi di esposizione, vale adire le forme più o meno esteriori che la metafisica può assumere e che sono suscettibili di adattamenti diversi, e anche, evidentemente, lo stato di conoscenza o d'ignoranza degli uomini, o per lo meno della maggioranza di loro nei confronti della vera metafisica; ma essa resta sempre, in fondo, perfettamente identica a se stessa, il suo oggetto essendo essenzialmente uno, o più esattamente "senza dualità" come dicono gli Indù, e questo oggetto, sempre per il suo essere"al di là della natura", è anche al di là del cambiamento: è quel che gli Arabi esprimono dicendo che "la dottrina dell'Unità è unica".
Inoltrandoci nell'ordine delle conseguenze, possiamo aggiungere che in metafisica non è assolutamente possibile fare scoperte, perché, trattandosi di un modo di conoscenza che non ricorre all'uso di mezzi speciali ed esteriori di investigazione, tutto ciò che è suscettibile di essere conosciuto può esserlo stato in ugual modo da uomini diversi in tutte le epoche; ed è ciò che risulta effettivamente da un esame approfondito delle dottrine metafisiche tradizionali. D'altronde, quand'anche si ammettesse che le idee di evoluzione e di progresso possano avere un qualche valore relativo in biologia e in sociologia, la qual cosa è lungi dall'esser provata, non sarebbe meno certo che esse non hanno alcuna applicazione possibile alla metafisica; è così che queste idee sono del tutto estranee agli orientali, come del resto lo furono, fin verso la fine del secolo XVIII, agli stessi occidentali che oggi le reputano elementi essenziali dello spirito umano. Ciò implica, lo si noti bene, la condanna formale di ogni tentativo di applicare il"metodo storico" a quanto sia di ordine metafisico: lo stesso punto di vista metafisico si oppone in modo radicale al punto di vista storico, o sedicente tale, e in questa opposizione bisogna vedere non soltanto una questione di metodo, ma anche e soprattutto, il che è molto più grave, una vera questione di principio, poiché il punto di vista metafisico, nella sua immutabilità essenziale, è la negazione stessa delle idee di evoluzione e di progresso; si potrebbe perciò dire che la metafisica non si può studiare che metafisicamente. Non bisogna qui tenere conto di contingenze quali possono essere le influenze individuali, che, a rigore, non esistono in questo àmbito e non possono esercitarsi sulla dottrina perché essa, essendo di ordine universale, dunque essenzialmente sovraindividuale, sfugge per forza di cose alla loro azione; anche le circostanze di tempo e luogo, lo ribadiamo, possono influire soltanto sull'espressione esteriore, e null'affatto sull'essenza stessa della dottrina; e infine, in metafisica, non si tratta per nulla, come invece nell'ordine del relativo e del contingente, di "credenze" o di "opinioni" più o meno variabili e mutevoli in quanto più o meno dubbie, ma esclusivamente di certezza permanente e immutabile.
In effetti, per il fatto stesso che la metafisica non partecipa minimamente della relatività delle scienze, deve implicare, quale carattere intrinseco, la certezza assoluta, e ciò vale anzitutto per il suo oggetto, ma anche per il suo metodo, se tale parola può applicarsi qui, perché altrimenti tale metodo, o comunque si voglia chiamarlo, non sarebbe adeguato all'oggetto. La metafisica esclude quindi necessariamente qualsiasi concezione di carattere ipotetico, donde risulta che le verità metafisiche, in se stesse, hanno un'assoluta incontestabilità; di conseguenza, se talvolta può esserci discussione e controversia, sarà sempre e soltanto per effetto di una esposizione difettosa o di una comprensione imperfetta di tali verità. D'altra parte, ogni possibile esposizione è qui necessariamente difettosa, perché le concezioni metafisiche, per la loro natura universale, non sono mai del tutto esprimibili, e neppure immaginabili, non potendo essere raggiunte nella loro essenza che dall'intelligenza pura e" informale " ; esse oltrepassano immensamente tutte le forme possibili e in particolare le formule in cui il linguaggio vorrebbe chiuderle, formule sempre inadeguate che tendono a restringerle e perciò a snaturarle. Queste formule, come tutti i simboli, possono servire solo come punto di partenza, come "supporto" per così dire, per aiutare a concepire ciò che in se rimane inesprimibile, ed è compito di ciascuno sforzarsi di concepirlo effettivamente a misura della propria capacità intellettuale, supplendo in tal modo, in questa stessa misura, alle fatali imperfezioni dell'espressione formale e limitata; è del resto evidente che tali imperfezioni raggiungeranno il loro massimo quando l'espressione dovrà avvenire in lingue che, come quelle europee, soprattutto moderne, sembrano quanto mai refrattarie all'esposizione delle verità metafisiche. Come appunto dicevamo più sopra a proposito delle difficoltà di traduzione e adattamento, la metafisica, in quanto si apre su possibilità illimitate, deve sempre riservarsi la parte dell'inesprimibile, che in fondo è anche per lei del tutto essenziale.
Questa conoscenza di ordine universale deve porsi al di là di tutte le distinzioni che condizionano la conoscenza delle cose individuali, e delle quali il tipo generale e fondamentale è la distinzione fra soggetto e oggetto; ciò mostra una volta di più che l'oggetto della metafisica non è assolutamente paragonabile all'oggetto specifico di qualsiasi altro genere di conoscenza, e che non può neppure essere chiamato oggetto se non in un senso puramente analogico, perché per poterne parlare bisogna pur attribuirgli una qualche denominazione. Allo stesso modo, se si vuol parlare del mezzo della conoscenza metafisica, esso non potrà che costituire un tutt'uno con la conoscenza stessa, dove soggetto e oggetto sono unificati in modo essenziale; come dire che tale mezzo, seppure è lecito chiamarlo così, non può esser nulla di simile all'esercizio di una facoltà discorsiva quale è la ragione umana individuale. Si tratta, come dicevamo, dell'ordine sovraindividuale e, di conseguenza, sovrarazionale, che non significa affatto irrazionale: la metafisica non può opporsi alla ragione, piuttosto è al di sopra della ragione, che lì può intervenire solo in modo del tutto secondario per la formulazione e l'espressione esteriore di quelle verità che vanno di là dalla sua sfera e dalla sua portata. Le verità metafisiche possono essere concepite unicamente da una facoltà che non è più dell'ordine individuale e che si può definire intuitiva per il carattere immediato della sua operazione, purché, beninteso, si aggiunga che non ha assolutamente niente in comune con ciò che certi filosofi contemporanei chiamano intuizione, facoltà soltanto sensitiva e vitale, che è propriamente al di sotto, e non più al di sopra, della ragione. Occorre dunque dire, per maggior precisione, che la facoltà di cui stiamo parlando è l'intuizione intellettuale, di cui la filosofia moderna ha negato l'esistenza perché non la capiva, quando non preferì ignorarla puramente e semplicemente; si può ancora designarla col nome di intelletto puro, seguendo l'esempio di Aristotele e dei suoi continuatori scolastici, per i quali infatti l'intelletto è ciò che possiede immediatamente la conoscenza dei princìpi. Aristotele dichiara espressamente(1) che "l'intelletto è più vero della scienza", vale a dire, in definitiva, della ragione che costruisce la scienza, ma che "nulla è più vero dell'intelletto", il quale è necessariamente infallibile proprio perché la sua operazione è immediata e perché, non essendo realmente distinto dal proprio oggetto, si confonde con la verità stessa. Tale è il fondamento essenziale della certezza metafisica; e da questo si vede che l'errore può introdursi soltanto con l'uso della ragione, vale a dire nella formulazione delle verità concepite dall'intelletto, e ciò perché la ragione è evidentemente fallibile a causa del suo carattere discorsivo e mediato. D'altronde, ogni espressione essendo necessariamente imperfetta e limitata, l'errore, nella forma se non nella sostanza, vi è inevitabile: per quanto rigorosa si voglia rendere l'espressione, quel che essa esclude è sempre molto più di quel che può includere; ma un errore del genere può non avere nulla di positivo in quanto tale, e tutto sommato essere solo una verità minore che risiede unicamente in una formulazione parziale e incompleta della verità totale.
Ci si può ora rendere conto di quale sia, nel suo significato più profondo, la distinzione tra conoscenza metafisica e conoscenza scientifica: la prima dipende dall'intelletto puro, il cui dominio è l'universale; la seconda dipende dalla ragione, il cui dominio è il generale, in quanto, come ha detto Aristotele, "non vi è scienza se non del generale". Non bisogna dunque confondere l'universale e il generale come troppe volte fanno i logici occidentali, i quali non si innalzano mai realmente al di sopra del generale neppure quando gli attribuiscono indebita mente il nome di universale. Abbiamo detto che il punto di vista delle scienze è di ordine individuale; infatti il generale non si oppone all'individuale, ma soltanto al particolare, e anzi altro non è che un'estensione dell'individuale; ma l'individuale può estendersi anche indefinitamente senza perciò perdere la sua natura e travalicare le proprie condizioni restrittive e limitative; e per questo affermiamo che la scienza potrebbe estendersi indefinitamente senza mai raggiungere la metafisica, dalla quale rimarrà sempre separata nel modo più profondo, perché solo la metafisica è la conoscenza dell'universale.
Pensiamo di aver caratterizzato a sufficienza la metafisica; molto di più non potremmo dire senza entrare nell'esposizione della dottrina vera e propria, che qui sarebbe fuori luogo; d'altronde questi dati saranno completati nei capitoli che seguiranno, e in particolare quando parleremo della distinzione tra la metafisica e ciò che nell'Occidente moderno viene generalmente chiamato col nome di filosofia. Tutto quanto abbiamo detto si applica, senza alcuna restrizione, a una qualunque delle dottrine tradizionali dell'Oriente, nonostante le grandi differenze di forma che possono nascondere l'identità di fondo a un osservatore superficiale: tale concezione della metafisica è vera per il taoismo, per la dottrina indù e anche per l'aspetto profondo ed extrareligioso dell'islamismo. Esiste qualcosa di simile nel mondo occidentale? Se si esamina solo ciò che esiste attualmente, si potrebbe sicuramente dare a questa domanda una risposta negativa, perché ciò che il pensiero filosofico moderno si compiace talvolta di abbellire col nome di metafisica non corrisponde in alcun modo alla concezione che abbiamo esposto; ritorneremo comunque su questo punto. Tuttavia quanto abbiamo detto su Aristotele e sulla dottrina scolastica mostra che vi fu, se non la metafisica totale, almeno della metafisica in una certa misura; e nonostante questa riserva necessaria, si trattò di qualcosa di cui la mentalità moderna non offre più il minimo equivalente, e la cui comprensione le sembra preclusa. D'altra parte, se la riserva che abbiamo or ora fatto si impone, è perché esistono, come dicevamo in precedenza, delle limitazioni che sembrano davvero inerenti a tutta l'intellettualità occidentale, almeno a partire dall'antichità classica; e a questo proposito abbiamo notato come i Greci non avessero punto l'idea di Infinito. Del resto, perché mai gli occidentali moderni, quando credono di pensare all'Infinito, si rappresentano quasi sempre uno spazio, il quale non può essere che indefinito, e perché confondono immancabilmente l'eternità, che risiede essenzialmente nel "non tempo", se così possiamo esprimerci, con la perpetuità, che non è se non un'estensione indefinita del tempo, mentre in simili confusioni non incorrono mai gli orientali? Il fatto è che la mentalità occidentale, volta quasi esclusivamente alle cose sensibili, fa costante confusione tra concepire e immaginare, al punto che ciò che non è suscettibile di rappresentazione sensibile le pare veramente impensabile; e già presso i Greci le facoltà immaginative erano soverchianti. Le quali, evidentemente, sono l'esatto opposto del pensiero puro; così stando le cose, non può esserci intellettualità nel vero senso della parola, ne, di conseguenza, metafisica. Se a queste considerazioni si aggiunge poi l'altra confusione abituale tra razionale e intellettuale, non si tarderà ad accorgersi che la pretesa intellettualità occidentale non è in realtà, soprattutto nei moderni, che l'esercizio di quelle facoltà meramente individuali e formali che sono la ragione e l'immaginazione; e si capirà allora tutto ciò che la separa dall'intellettualità orientale, per la quale non c'è conoscenza vera e valida se non quella che ha le proprie radici profonde nell'universale e nell'informale.


 

(1)Analitici, II


lunedì 24 giugno 2013

Istruzioni Concernenti l'Iniziazione martinista del S.G.M. C. Chevillon




In linea di principio, l'iniziazione martinista deve essere concessa in una sola volta. In pratica, si consiglia di farla in tre gradi, non per perpetuare le innovazioni di Papus, ma per garantire che i destinatari siano veri uomini di desiderio e non semplici curiosi. Il tempo che separa le iniziazioni è variabile, dipende dal grado di sviluppo del nuovo Martinista, dal suo lavoro, ecc. Non c'è mai l'interesse a ravvicinare queste iniziazioni.

Solo il SI può dire veramente martinista, ma l'insegnamento martinista può, dal primo grado, essere comunicato nella sua interezza.
Il SI, che ha dimostrato una reale comprensione dello spirito del Martinismo, e che sarà considerato in grado di trasmettere a sua volta l'iniziazione, può essere insignito del grado amministrativo di S I iniziatore (detto S I IV o ancora Libero Iniziatore).
I martinisti devono sempre riunirsi intorno (o davanti) ad un altare coperto da tre tappeti, bianco in alto, rosso in mezzo, nero sotto, e con sopra il Pentacolo come pure i Tre Luminari. I partecipanti possono avere una tunica bianca con cordone, la maschera viene utilizzata solo durante le iniziazioni.
Si raccomanda di studiare le opere del Fil. Inc., gli esoterismi, le dottrine tradizionali, il lato esoterico e mistico dei vari sistemi religiosi, con l'esclusione di qualsiasi pratica occulta.
Non dimenticate mai che il Martinismo è un cristianesimo trascendente, e che coloro che non si richiamano alla tradizione cristiana, non possono dirsi martinisti.
Segni di riconoscimento in genere adottati dai Martinisti: ...
Richiesta: ... Risposta: ...
Quando più liberi martinisti si incontrano per lavorare insieme, si incontrano a casa di uno di loro. Essi non costituiscono un raggruppamento permanente, al contrario, il loro gruppo cessa di esistere una volta che l'incontro si è concluso. Durante l'incontro, uno di loro, libero iniziatore, se del caso, altrimenti il martinista più anziano, svolge funzione di presidente, un altro, che dovrà stargli di fronte nella sala, le funzioni di Sostituto.
Ci devono essere sul tavolo: tre luminari, tre tappetini, il tradizionale Pentacolo Martinista. Si raccomanda di bruciare incenso, almeno all'inizio della riunione.
All'inizio e alla fine della sessione i partecipanti formano la catena di unione, senza incrociare le braccia, ponendo la mano destra sulla mano sinistra del loro fratello o sorella di destra. Durante la catena di unione, i Fratelli evocano col pensiero il Filosofo Ignoto ed i Maestri Passati del Martinismo.
Per segnare l'inizio e la fine delle sessioni, al fine di isolare il gruppo dal mondo laico, si tiene un breve dialogo tra il presidente e il sostituto, i termini non sono fissi "ne varietur"...
E' preferibile l'iniziazione individuale "da uomo a uomo". Inoltre, non vi è un (vero e proprio) rituale di iniziazione. E' sufficiente esporre al recipiendiario il simbolismo dei luminari, della maschera, del mantello, come pure i principi e gli obiettivi del Martinismo.
Il giuramento e la consacrazione sono obbligatori, il giuramento non deve includere alcun obbligo di obbedienza.

AFORISMI BASILIANI di Eglinus Iconius (Angelus Medicus)

 

AFORISMI BASILIANI
o
CANONI ERMETICI
sullo spirito, l'anima e il corpo
del Mondo Maggiore e Minore,
composti da
HERMOPHILUS PHILOCHEMICUS
Ermete Trismegisto
Queste cose appaiono vere al sapiente: incredibili all'ignorante. 

Marpurgo
Dall'officina di Wolgangus Kezelius
1608
 

  1. Ermete Trismegisto meritò di essere chiamato Padre dei Filosofi per aver indagato il triplice regno Minerale, Vegetale e Animale; anzi per aver indagato la triplica sussistenza in un'unica essenza creata, in cui esplorò ogni virtù della Natura vegetale, animale e minerale.
     
  2. La forza vegetante nella natura del Mercurio volatile, candido a guisa di neve, coagulato, non è comune; questo è in qualche modo lo Spirito sia del mondo maggiore che del minore, da cui dipendono la mobilità e la fluidità della stessa natura umana, secondo l'anima razionale.
     
  3. La forza animante, d'altra parte, in quanto legame del mondo, è in mezzo tra lo Spirito ed il corpo e vincolo per entrambi. Si trova nello Zolfo di un certo olio rosso e trasparente, simile al Sole nel Mondo Maggiore ed è il cuore del Microcosmo.
     
  4. La mineralità, infine, possiede un corpo quasi a guisa di Sale, di mirabile virtù e odore; quando il sale sarà stato separato dalle scorie della terra, non sarà dissimile dal Mercurio se non per lo spessore del corpo e la consistenza della terra.
     
  5. Queste tre sussistenze in un'unica essenza creata, costituiscono il limbo del mondo maggiore e minore da cui fu creato il primo uomo, plasmato dalla polvere della terra. Qui accede, come Regina, l'anima razionale del Microcosmo, la quale è immortale, immediatamente insufflata da Dio nonché causa motrice e direttrice di queste tre e di tutte le funzioni nell'uomo.
     
  6. In effetti, come dai quattro elementi, grazie alla polvere coagulata della terra, la forza e la vita dei nostri corpi traggono salute se lo spirito mercuriale, l'umido radicale, l'anima sulfurea e il caldo naturale - assieme alla consistenza del sale che preserva dalla putredine - si armonizzano in uno, così, viceversa, è necessario separare l'anima immortale dal corpo di polvere coagulata della terra, se sopraggiunge difetto in uno o più dei tre principi. Se la mancanza è totale, allora sopravviene la morte, se parziale, la malattia. L'anatomia consiste precipuamente nel vedere ciò che si trova nei sette membri Principali.
     
  7. A questa triplice mancanza niente può ugualmente rimediare quanto quella massa del limbo, coagulata dai tre principi in uno solo, da cui fu animato il primo uomo, e che equivale alla potenza della natura ed alla forza che deve essere suscitata e alimentata, quando nel corpo astrale fisso sarà stata debitamente convertita.
     
  8. Da ciò si comprende come il Balsamo del soggetto Ermetico, abbia una singolare armonia col corpo umano: perciò quell'Elvetico Monarca dei Fisici, Filippo di Hohenheim, ossia Paracelso, nel Libro sulla Pietra Fisica, detto anche Manuale, giustissimamente asserisce che il Microcosmo, situato nel limbo terrestre e formato dalla polvere della terra, non solo secondo un'opinione, ma veramente e propriamente, può essere condotto alla sanità e conservato radicalmente, grazie a questa Medicina, del pari che dal suo simile.
     
  9. Invero, tanto più occorre fare attenzione, quanto più la medicina comune è debole nei confronti di quei tre principi del microcosmo e della loro armonia, che deve essere radicalmente preservata e mantenuta: è senza dubbio per caso che essa aiuta la nascita dei tre principi [dal momento che la sua forza è impiegata quasi tutta nei quattro umori].
     
  10. Al contrario, la Medicina Minerale Chimica, estratta dai metalli e dai minerali, raramente è sia preparata che amministrata correttamente: per questo Paracelso, nel suo libro, preferisce la sua medicina ad ogni altra: egli non nega, tuttavia, che vi siano analogamente grandi Arcani nelle altre cose Minerali, ma di più lunga opera e lavoro, non facilmente conquistabili in modo corretto, soprattutto dagli inesperti: questi, imbattendosi in queste cose, procurano più danno di quanto possano giovare.
     
  11. Cerchiamo dunque il Limbo nel Microcosmo in cui questo è situato; cerchiamo cioè quel viscido globo terrestre, coagulato dal Mercurio, dallo Zolfo e dal Sale: dal momento che questo certamente nasce da una certa sostanza umida, secondo Geber può ben essere definito viscosa umidità dell'umidità.
     
  12. Infatti sebbene il Mondo abbia avuto origine dal Nulla, deve la sua origine all'Acqua, sulla quale aleggiava lo Spirito del Signore: da essa provengono tutte le cose sia Celesti che Terrestri. Così, a questo punto, il Limbo emerge da un'Acqua non volgare, e non dalla rugiada celeste o dall'Aere condensato nelle caverne della Terra o nel Recipiente stesso, né è attinto dall'abisso del Mare, dalle fonti, dai pozzi o dai fiumi: ma piuttosto da una certa Acqua che ha patito sofferenza, sotto gli occhi di ognuno, ma conosciuta da pochissimi, che ha in sé tutte le cose che le sono necessarie per il compimento di tutta l'opera, a prescindere da ogni moto esterno.
     
  13. D'altra parte la Natura è quel certo spazio intermedio tra il Mondo Maggiore e Minore, che è reperibile ovunque e sia presso il povero che presso il ricco, come riferiscono tutti i Filosofi. Infatti essa fu gettata per le strade e calpestata, sebbene tuttavia sia fonte di mirabili operazioni. Ne consegue che dovranno essere reintegrati quei tre principi del nostro corpo che godono di diverse proprietà.
     
  14. Questa materia dissolta nella sua propria Acqua [dall'Acqua scaturisce infatti ogni Generazione] è fatta ruotare attraverso i quattro Elementi, finché non si trasformi nella Natura Astrale fissa, nell'Uovo Fisico, così detto per il calore della Gallina che cova le uova all'infinito: diversamente perirebbe la speranza di ogni discendenza.
     
  15. Così l'Uccello Ermetico una volta chiuso nella Gabbia, che è la Fornace, deve essere eccitato gradatamente dal calore continuato del nostro fuoco denso di vapori, finché non si schiuda e risani ognuno col suo parto.
     
  16. Come d'altra parte nella preparazione dei tre Principi di quest'Acqua - che ha sofferto pazientemente - non aggiungiamo nulla alla Materia sostanziale, e niente sottraiamo alle tre proprietà sussistenti, ma rimuoviamo piuttosto dalla sola preparazione le cose superflue, cioè eterogenee, come la Terra inaridita e l'acqua insipida, così l'opera Ermetica viene intrapresa grazie alla congiunzione dei tre Principi preparati in una certa proporzione. Naturalmente, il peso del corpo corrisponde quasi alla sesquialtera parte dello Spirito e dell'Anima.
     
  17. Dopo di ciò tutte le cose devono essere rette da un calore continuo, affinché la Natura, come Agente più profondo, non si arresti né patisca un eccesso. Al principio si faccia dunque un fuoco mite, inizialmente di quasi 4 gocce ovvero fili, finché la Materia annerisca. Poi aumenta fino ad arrivare quasi a 14 fili, finché la Materia si purifichi e l'Iride che appare finisca in colore Grigio. Quindi persevera fino a quasi 24 fili, fino alla perfetta Albedo, superiore alla Neve, fluente, fissa, che è la Luna del Microcosmo.
     
  18. Perciò se vuoi procedere verso la perfetta Rubedo, continuerai il fuoco per 70 giorni, finché il Lapis si muti in Rubino trasparente, massiccio e pesante, che è proprio il Sole del Microcosmo, che deve essere aumentato nello stesso modo in cui fu incominciato. Un grano di questo equivale a seimila grani, per cui deve essere amministrato in dosi piccolissime.