Oltre alle tante opere scritte dal nostro filosofo e giunte a noi, ve ne sono altre che erano in progetto, ma che poi non furono portate a termine, e tra queste, ve n’era una, intitolata: “Trattato sull’ammirazione”. Di questo “Trattato” ci sono però giunti alcuni frammenti di notevolissimo interesse e su cui ci intratterremo in quanto ci aiutano a capire più compiutamente le considerazioni di Louis Claude de Saint Martin sull’uomo, oltre quelle già prese in esame nei precedenti capitoli.
Questi
frammenti sono stati pubblicati nel 1807, dal cugino Nicola Tournyer,
assieme ad altri frammenti di scritti del nostro autore, in una raccolta
intitolata “Opere postume”, in due volumi.[1]
Nell’introduzione
di questo frammento, l’Autore ci fa sapere che ha creduto di rendere un
servizio ai suoi simili scrivendo questo “Trattato”, poiché essi,
fissando la loro attenzione
sul concetto d’ammirazione e quindi su di un vero tesoro che è a
portata di mano per chiunque, potevano procurare delle luci alla loro
intelligenza e dei godimenti al loro essere essenziale.
Le
osservazioni da lui fatte sull’ammirazione lo hanno portato, inoltre,
ad esprimere il suo pensiero sul problema dell’ateismo; del quale ci
occuperemo dopo aver esaminato questo vero tesoro di cui egli parla,
tesoro che, secondo quanto egli afferma, è tanto vicino a noi e dal
quale vedremo provenire potenti meraviglie, consistenti in una verità
semplice e comune in apparenza, ma di cui finora, non si è abbastanza
considerato il valore.
Questa
verità, ad un tempo vasta e semplice, sublime e comune di cui egli
parla nel suo “Trattato”, eccola esposta nella seguente opera che ne
contiene i frammenti:
OPERE POSTUME
Dal Vol. 2°, Cap.: L’anima dell’uomo non può vivere che d’ammirazione.
Sotto
qualsiasi rapporto si consideri l’uomo, non si troverà nulla in lui che
non sia una testimonianza in favore di quest’assioma. L’uomo che si
nutre di verità, è felice solamente perché vi trova di che ammirare.
L’uomo che ama non è in un amore vero che per quanto egli può realmente
ammirare ciò che ama. L’uomo stesso che s’inganna, sia nelle sue luci,
sia nel suo amore, ammira ancora, sebbene la sua ammirazione sia fragile
e passeggera come gli oggetti illusori ai quali aveva imprudentemente
abbandonato il suo cuore ed il suo spirito. Infine allorché l’uomo non
ammira, è vuoto e nullo: egli è come immerso in un sonno spesso e
tenebroso.
Se
tale è la maniera d’essere costitutiva dell’uomo, dobbiamo credere che
la nostra natura non ci avrebbe formati con un bisogno così universale e
così imperioso, se non avesse nello stesso tempo provveduto ai modi di
soddisfarlo; essa non può essere meno saggia e meno feconda delle altre
madri le quali tutte possono fornire abbondantemente ai loro figli,
tutte le sussistenze di cui la loro legge li rende avidi.
Ma
ciò che egualmente certo è che noi ammiriamo le cose in quanto esse
sono al di sopra di noi. Le più grandi meraviglie cessano di soggiogarci
fin dall’istante ch’esse cessano di sorprenderci e possiamo anche
aggiungere anticipatamente, che queste stesse meraviglie cessano di
contribuire ai nostri piaceri, fin dall’istante in cui esse cessano di
soggiogarci, tanto è vero che vi è per noi solamente un’alternativa,
quella della penuria o di un’ammirazione che ci domini».
Da
tutto ciò, risulta che se la nostra essenza costitutiva è il bisogno
d’ammirare, se la nostra natura non può averci dato un simile bisogno,
senza ch’essa sia sempre pronta a soddisfarla; infine, se non ammiriamo
che ciò che è al di sopra di noi, bisogna che vi sia incessantemente ed
eternamente qualcosa al di sopra di noi che noi possiamo ammirare in
tutti i momenti, o ci sentiremo pressati dalla sete dell’ammirazione.
Questi
dati semplici e che ogni uomo può verificare, ci conducono naturalmente
e mediante la logica più rigorosa, alla dimostrazione dell’esistenza di
una sorgente necessaria e permanente, da cui gli oggetti d’ammirazione
possono discendere continuamente accanto a noi alla voce dei nostri
bisogni, come i fiumi non cessano di sorgere dal seno della Terra
per irrigare e ravvivare tutte le sue produzioni, e come il latte è
sempre pronto ad uscire dalla mammella ai minimi desideri del bambino.
Perciò
questa sorgente permanente ed eterna, di cui l’esistenza ci è
indispensabile perché non languiamo nel nostro appetito radicale
d’ammirazione, infine questo necessario meraviglioso che deve sempre
essere al di sopra di noi, perché tutto godendo, non possiamo
impadronircene, non corriamo alcun rischio chiamandolo Dio,
poiché presso tutti i popoli e in tutti i luoghi, questo nome ha
presentato l’idea di un essere che è più di noi, ma che racchiude per
noi tutte le sorgenti d’ammirazione delle quali il bisogno possa nascere
nel nostro spirito; in effetti, non può essere che in questa regione
superiore ed eterna dell’ammirazione che gli uomini di tutti i tempi
hanno attinto l’idea primitiva di una divinità, nonostante le
applicazioni false ed abusive che ne hanno fatto e che ne possono fare
ancora. È solamente qui ch’essi trovano da risvegliare e nutrire in loro
l’ammirazione della potenza mediante le opere meravigliose che si
sviluppano ai loro occhi, l’ammirazione della saggezza e dell’intelligenza mediante le profondità in cui lo spirito può
penetrare, l’ammirazione dell’amore mediante il sentimento delle
abbondanti fecondità di cui questa sorgente può arricchire l’anima
umana.
Ora,
perché questa sorgente superiore ha così abbondantemente di che bastare
ai nostri diversi bisogni d’ammirazione? Non rimandiamo più a lungo di
manifestarlo: è ch’essa stessa si nutre solamente di questa sostanza; è
che essendo eternamente nell’attività ineffabile e creatrice della sua
propria generazione, essa è eternamente nelle delizie della sua propria
ammirazione; è che il suo pensiero abbraccia ed afferra ad un tempo
tutta l’universalità del suo essere, e non è esposto come in noi a non
abbracciare che delle facoltà parziali, da cui risultano delle
disuguaglianze e dei difetti di misura; è che essa non può così che
amarsi sempre e compiacersi eternamente ed universalmente in se stessa; è
infine che essendo continuamente piena del suo proprio amore e della
sua propria ammirazione, allorché versa su di noi in qualche modo la
sovrabbondanza dei suoi tesori, essa non vi può versare che la
sovrabbondanza della sua ammirazione e del suo amore. Ecco già alcuni
dei frutti della proposizione ad un tempo semplice ed immensa che
abbiamo presentato; cioè: che l’anima dell’uomo non può vivere che d’ammirazione.
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A questo punto, l’Autore ci dà una nuova proposizione non meno feconda della precedente e cioè:
“L’uomo è il solo che sia suscettibile d’ammirazione fra tutti gli esseri della natura”.
E
proseguendo afferma che l’uomo è il solo essere fra tutti gli esseri
della natura ad essere suscettibile d’ammirazione, perciò è il solo ad
avere dei rapporti d’analogia con la sorgente universale
dell’ammirazione e quindi con Dio,
poiché senza analogia l’uomo mai potrebbe essere colpito da alcun
movimento d’ammirazione, nonostante la magnificenza delle meraviglie che
la sorgente eterna espone davanti a lui, e questi rapporti lo elevano
di conseguenza, rispetto a tutti gli altri esseri della natura, al rango
più sublime dopo Dio,
essendone contemporaneamente il riflesso e lo specchio. Ma essendo
l’uomo suscettibile d’ammirazione solamente perché trova la sua analogia
nella sorgente eterna, a maggior ragione bisogna che questa sorgente
eterna trovi dell’analogia nell’uomo per trasmettergli efficacemente le
basi d’ammirazione di cui essa è il principio generatore, facendoci così
divenire i suoi cooperatori nello sviluppo delle sue meraviglie grazie
all’espansione della sua ammirazione. Pertanto, questa sorgente, ovvero Dio,
può farsi conoscere solamente attraverso la felicità o l’ammirazione,
poiché Egli stesso è la felicità e l’ammirazione dal momento che ne
porta tanta in noi stessi allorché abbiamo la fortuna di avvertire il
suo approccio. Ma se sciaguratamente rimproverassimo la Divinità di non
averci fatto come Lei, vedremmo che, se così fosse, saremmo uguali a Lei
e conseguentemente non saremmo stati fatti, essendo Lei ammirabile
solamente perché non è stata fatta e noi non avremmo nulla da chiedere,
poiché saremmo come Dio.
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[1]
Alla morte di L. C. de Saint-Martin avvenuta, secondo quanto ci
racconta il suo amico e discepolo J.B.M. Gence il 13 ottobre 1803, la
maggior parte dei suoi manoscritti furono affidati, dall’unica erede
Louise-Françoise marchesa dell’Estenduère, sorella di Saint-Martin, a
Nicolas Tournyer, cugino di parte materna.
Nel 1807 Nicolas Tournyer pubblicò in due volumi, intitolati “Opere postume”,
una raccolta tratta dai suddetti manoscritti ricevuti, comprendente
oltre al “Trattato sull’Ammirazione, quello delle Benedizioni, “le vie
della Saggezza”, delle raccolte di pensieri, varie sue poesie tra cui
“Il Cimitero d’Amboise”, “La questione proposta dall’Accademia di
Berlino”, dieci sue preghiere e tanti altri scritti.
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