Più volte, dei fratelli, non solo fra gli Associati,
li ho sentiti porsi la domanda se il pensiero, ovvero la dottrina con i
relativi insegnamenti del Filosofo d’Amboise, e conseguentemente la via
da lui tracciata, siano sempre attuali. Questa domanda, che anch’io mi
sono posto tanti anni or sono, è da ritenersi più che appropriata,
specialmente se si considera l’epoca in cui stiamo vivendo, un’epoca in
cui il tempo non ha più tempo, un’epoca in cui tutti rincorrono gli
attimi, senza accorgersi che con essi se ne va il proprio esistere.
C’è tanta voglia di tempo, e nel continuo desiderio
di dare un senso alla nostra esistenza, la nostra vita sembra essersi
trasformata in una corsa affannosa verso un traguardo che si rivela
sempre impossibile da raggiungere e che ci riporta alla mente le parole
di Quelet figlio di Davide, re di Gerusalemme (Quelet 1:14): «Ho
meditato su tutto quel che gli uomini fanno per arrivare alla
conclusione che tutto il loro affannarsi è inutile. È come se andassero
a caccia di vento».
In questo mondo in cui ha preso il sopravvento la
scienza e la tecnologia a seguito del grande sviluppo del pensiero
razionale, non siamo più in grado di prendere i giusti provvedimenti che
ci riguardano e di riflettere sul passato, sul presente e sul futuro; e
via via che i ritmi della vita moderna continuano ad aumentare ci
sentiamo sempre più scollegati dai ritmi biologici del pianeta e sempre
meno in grado di vivere un rapporto diretto con l’ambiente naturale. Il
ritmo del nostro tempo non è più in armonia con il sorgere ed il
tramontare del sole, con il flusso e riflusso delle maree, con
l’avvicendarsi degli equinozi e dei solstizi, col calendario lunare e
con quello solare, insomma è venuto meno il rapporto tra microcosmo e
macrocosmo. Tutt’al più il nostro rapporto con la natura e con il mondo
che ci circonda si limita all’osservazione del cielo da una finestra
prima di uscire di casa, per stabilire se è il caso o meno, di portare
con noi un ombrello.
Concludo questa prima parte del mio intervento,
osservando che oggi, l’impotenza dell’uomo, così come dice il filosofo
rumeno, Emile Cioran, è giunta al punto «di dover affrontare una
sventura inusitata, e cioè quella di non avere diritto al tempo».
Quanto noi oggi sperimentiamo in relazione col mondo
e con il tempo, indubbiamente, anche se in forme e misure diverse, lo
sperimentò a suo tempo pure il nostro venerabile Maestro, specialmente
se consideriamo la terribile esperienza da lui vissuta con la
Rivoluzione Francese. Noi oggi ci chiediamo se la via da lui tracciata
per stabilire un rapporto tra noi, Dio e l’universo, sia ancora
possibile, e pertanto in grado di poter ristabilire una piena
consapevolezza, in noi, della nostra immagine e somiglianza con il
Creatore. Queste domande pure lui se le poneva ed in varie occasioni nei
suoi scritti egli ci espone le sue perplessità, per non dire i suoi
giudizi negativi sui comportamenti degli uomini del suo tempo e sulle
varie vie tradizionali praticate in determinati ambienti; ad esempio nel
cantico 90 dell’opera "L’Uomo di desiderio" invita i sapienti
nell’arte ermetica a non ingannare più se stessi con i loro
misteri confondendo l’opera della verità con la loro e correndo così
il rischio di somigliare ai figli di Belial; oppure nel libro
"Degli Errori e della verità", partizione 7, al capitolo
"Del Verbo", dove osserva, riferendosi ai Cabalisti speculativi,
ch’essi non trovano nulla "perché parlano sempre e non verbano
mai"; o come nel "Quadro naturale........", in cui dedica
un intero capitolo agli alchimisti, nei confronti dei quali si esprime
con delle valutazioni tutt’altro che positive. Ma è soprattutto sulla
via teurgica del suo primo maestro, via da lui praticata nei suoi anni
giovanili nella Loggia di Bordeaux, ch’egli mette in guardia i suoi
lettori; ecco come si esprime nella sua opera "Il Ministero dell’Uomo-spirito",
parte seconda: "Dell’Uomo" , dove, parlando dell’opera che
l’uomo di desiderio ha da compiere, dice che quest’opera « va ben al
di là delle operazioni teurgiche, con le quali accade che lo spirito si
attacca a noi, veglia su di noi, ed esercita la saggezza e le virtù,
senza che noi siamo né saggi né virtuosi, poiché allora questo spirito
ci è unito soltanto esteriormente, ed opera spesso anche queste cose a
nostra insaputa, il che ci mantiene nell’orgoglio ed in una falsa
sicurezza, più pericolosa forse, delle nostre debolezze e dei nostri
traviamenti che ci richiamano all’umiltà»; infine, sempre nel
"Ministero dell’Uomo-spirito" egli da un giudizio assolutamente
negativo sulla "Scienza degli spiriti".
Qual è dunque in alternativa la via che L.C. de
Saint-Martin propone ai suoi lettori? In una lettera da lui scritta
all’amico Kirchberger, il 19 giugno 1797 ( e quindi già a Rivoluzione
Francese avvenuta), egli afferma che «la sola iniziazione che predico
e che ricerco con tutto l’ardore della mia anima, è quella attraverso
cui possiamo entrare nel cuore di Dio, e far entrare il cuore di Dio in
noi, per realizzarvi un matrimonio indissolubile, tale da farci l’amico,
il fratello e la sposa del nostro divino Riparatore.......» e
prosegue poi ribadendo di avere del tutto abbandonato gli insegnamenti
legati alle iniziazioni attraverso cui era passato nella sua prima
scuola e di cui aveva parlato a suo tempo nell’ardore della
giovinezza. Ma è nel suo romanzo "Il Coccodrillo", scritto
tra il 1791 e l’agosto del 1792, che noi possiamo trovare una risposta,
direi completa alla nostra domanda. Nel Canto 81 l’autore ci
narra come ad Eleazar, personaggio principale di tutta la storia e che
simbolicamente raffigura il suo primo maestro Martinez de Pasqually,
venga sottratta dai cattivi geni del Coccodrillo la sua polvere magica
ottenuta dalla radice, dal fusto e dalle foglie della "viola doppia",
ossia dalla pansée o viola del pensiero, e con la quale
era sempre riuscito a sconfiggere il male, per cui, privatone, viene a
perdere la sua "forza elementale"; ma gli rimane il "desiderio" intorno
al quale ruota tutta l’azione. Privato perciò dei poteri che gli
conferiva la polvere della "viola doppia", il desiderio, denudato da
ogni egoismo, lo eleva al grado di un’altissima "concentrazione"
da cui domina i suoi nemici, essendo così rientrato in possesso delle
forze delle sue tre facoltà dell’anima, ossia del pensare, del
sentire e del volere. In questo modo ci viene rivelato che
queste tre facoltà sono il vero modello delle tre sostanze che
compongono la polvere; ma che, come Saint-Martin afferma, «l’effluvio
dei suoi desideri, fortificato dalla "concentrazione" è più attivo
ancora della polvere salina racchiusa nella scatola». Ecco allora il
nuovo prodigio, all’uomo antico, Eleazar, subentra l’uomo nuovo, l’uomo
del pensiero, ovvero, simbolicamente, L.C. de Saint-Martin stesso, cioè
l’uomo che, com’egli scriveva a Kirchberger, aveva lasciato «quelle
iniziazioni attraverso cui era passato nella sua prima scuola........per
darsi alla sola che sia veramente secondo il suo cuore»; e che
pertanto sostituiva le vie antiche, ormai prive di poteri, con la via
nuova, la via dei tempi moderni, ovvero la via del pensiero puro, del
pensiero vivente.
Quest’ultima affermazione
"secondo il suo cuore" ha indotto molti a considerare la sua via, in
quanto cardiaca, una via umida; niente di più sbagliato, poiché
dalla descrizione fatta risulta che si tratta di una via cardiaca
secca, giacché essa, mediante la "concentrazione", "passa per la
testa" dovendo, con le forze delle facoltà dell’anima pervenire all’elevazione
del pensiero.
In tutte le sue opere L.C. de Saint-Martin ha sempre
insistito sulla necessità dell’elevazione del pensiero per conquistare
lo spirito, ed infatti, ha sempre provato una forte ripugnanza a
conquistarlo con delle "operazioni fisiche" e ciò è provato dal fatto
che ancor prima della morte del suo primo maestro, per il quale
conserverà sempre una grande venerazione avendogli egli aperto "la
carriera", ossia l’accesso alle verità sovrannaturali, egli
riprenderà la sua libertà per darsi "alla sola via che sia veramente
secondo il suo cuore".
Parlando del pensiero nella sua opera "Degli
Errori e della verità" , cap. "Delle affinità degli esseri
pensanti", l’autore afferma quanto segue: «Quando l’uomo al
contrario, cessando di fissare gli occhi sugli esseri sensibili e
corporei, li riconduce sul proprio essere, e nell’intento di conoscerlo
fa uso con cura della sua facoltà intellettuale, la sua vista acquista
un’estensione immensa, concepisce e tocca, per così dire, dei raggi di
luce che sente essere fuori di lui, ma di cui sente pure tutta
l’analogia con se stesso; delle idee nuove discendono in lui, ma è
sorpreso, ammirandole, di non trovarle estranee. Ora, vi vedrebbe egli
tanti rapporti con se stesso, se la loro sorgente e la sua non fossero
simili? Si troverebbe così bene e così soddisfatto alla vista dei
barlumi di verità che gli si trasmettono, se il loro principio ed il suo
non avessero la stessa essenza? È questo che ci fa riconoscere che,
essendo il pensiero dell’uomo simile a quello dell’Essere Primo e a
quello della causa attiva ed intelligente, deve esservi stato tra essi
una corrispondenza perfetta fin dal momento dell’esistenza dell’uomo».
Incidentalmente vorrei sottoporre all’attenzione dei
fratelli e delle sorelle quanto sullo stesso argomento dice un grande
spiritualista, caposcuola del romanticismo tedesco, e contemporaneo del
nostro filosofo, e cioè Federico von Hardenberg, meglio conosciuto come
Novalis (tratto dalla sua opera "Frammenti", art. n° 27) e che
confermano con parole ed argomenti diversi lo stesso concetto:
«L’uomo ha l’impressione di trovarsi in una conversazione e che qualche
ente spirituale e ignorato lo induca in maniera arcana a sviluppare i
pensieri più evidenti. Questo ente deve essere un ente superiore perché
entra con lui in una specie di rapporto che non è possibile per nessun
ente legato a fenomeni. Deve essere un ente omogeneo perché tratta
l’uomo come un ente spirituale e lo esorta soltanto alla più rara
attività personale. Questo io di qualità superiore sta all’uomo come
l’uomo alla natura o il savio al fanciullo. L’uomo aspira a diventare
uguale a lui allo stesso modo che cerca di equiparare a sé il non io».
Ritornando ora alla via tracciata dal nostro
filosofo, abbiamo già notato come per l’uomo sia indispensabile
rientrare in possesso delle tre fondamentali facoltà dell’anima, ma
dobbiamo osservare pure che per ritornarne realmente in possesso e
necessario prima, come ci viene raccomandato con l’opera "Il Nuovo
uomo" che queste facoltà riacquistino la "verginità"
necessaria perché la concezione del nuovo uomo si compia in noi; cioè è
necessario che noi si dica alle nostre tre facoltà, come il Riparatore
disse al fratello di Marta e Maria "Lazzaro alzati" e solo allora
in noi si formerà il neonato dello spirito che potrà adempiere il suo
ministero in questo quaternario.
Ma come operare? la chiave sta nell’uso che si fa del
ternario pensiero, volontà e azione a cui spesso fa
riferimento il nostro filosofo; con la "concentrazione", in
effetti, si sviluppa l’azione generata dalla volontà e dal
pensiero che si muovono incontro all’oggetto del
sentire nella zona cardiaca, determinando la possibilità da parte
nostra di varcare quella soglia del mentale che ci separa dal mondo
dell’intuizione, del pensiero puro, del pensiero
vivente. (Incidentalmente faccio notare che la parola
intuizione viene da intuire, che a sua volta deriva dal
latino intra ire cioè andare dentro, ovvero essere nella cosa e
pertanto essere nella verità. Da ciò la differenza che vi è tra
l’iniziato e lo scienziato, il primo, varcando la soglia del mentale
entra direttamente nel mondo della conoscenza, il secondo invece, giunto
sul limite della soglia coglie qualche bagliore del mondo
dell’intuizione, ma come se ne fosse spaventato si ritrae al di qua
della soglia stessa e cerca di verificare mediante il pensiero razionale
la giustezza dell’intuizione colta).
Come vediamo si ripete l’eterno conflitto tra
pensiero razionale e pensiero vivente come se i due tipi di pensiero si
annullassero a vicenda. Non dimentichiamo la battaglia condotta da L.C.
de Saint-Martin contro la scienza del suo tempo che già allora
minacciava con il materialismo che portava con sé, ogni forma di
rapporto con il mondo divino. Oggi noi che, come abbiamo già
evidenziato, viviamo totalmente in un mondo reso artificiale dal
pensiero razionale e in un tempo scandito da congegni elettronici,
avvertiamo in modo particolare la necessità di ristabilire quell’equilibrio
dato dal mondo dello spirito a queste due forme di pensiero. Non a caso
nell’albero sefirotico le forze che agiscono sulla testa, Chokmah,
ovvero la saggezza o piano dell’intuizione e Binah cioè intelligenza o
piano della razionalità, nate nell’universo ed ivi diffuse, si
equilibrano in essa, una proveniente da destra ed una da sinistra,
creando la base del triangolo che ha per vertice Keter ovvero ciò che
per gli antichi era l’incarnazione di tutto ciò che doveva discendere
negli uomini dal mondo spirituale.
Per concludere, avendo, quindi, rigenerato il
pensiero attraverso la concentrazione e la meditazione, l’uomo di
desiderio potrà operare in sé quel risveglio che gli farà ritrovare il
più sublime dei suoi diritti che consiste, come dice il nostro filosofo,
nel far uscire Dio dalla sua propria contemplazione, realizzando così
quanto egli stesso afferma nel cantico 202 della sua opera «L’Uomo di
desiderio": Non è affatto all’uomo debole che la gloria del
Signore è promessa; prima di goderne bisogna che il pensiero dell’uomo
abbia riacquistato la sua elevazione. Perché è nel pensiero dell’uomo
che si trova la gloria del Signore. I cieli l’annunciano pure questa
gloria, e Davide ce l’ha detto nei suoi cantici; ma essi non fanno che
annunciarla, mentre il pensiero dell’uomo la giustifica, la prova e la
dimostra. Un giorno i cieli, la terra e l’universo cesseranno di essere
e non potranno più annunciare la gloria di Dio. Quando questo giorno
sarà giunto il pensiero dell’uomo potrà ancora giustificarla, provarla,
dimostrarla, e ciò per la durata di tutte le eternità. Pensate che, se
voi non abbandonerete un pensiero puro e vero che fosse stato condotto
ad un fine vivo ed efficace, vi ristabilirete, in modo impercettibile ai
sensi, nella vostra legge e diverrete fin da quaggiù i rappresentanti
del vostro Dio». Vorrei far notare qui, a voi tutti, l’estrema
importanza di quest’ultimo passo, in quanto esso ci dice chiaramente
quanto sia rilevante operare mediante il pensiero vivente nel
vivere di tutti i giorni, perché solo così si diverrebbe Operai del
Signore, compiendo in questo modo il proprio Ministero.
Non vorrei, però, giunto al termine, trascurare un altro
importantissimo compito che l’uomo di desiderio deve quotidianamente
compiere, e cioè l’opera della preghiera, poiché questa è l’azione
stessa, ovvero la generazione viva dell’ordine divino che si trasferisce
in lui, attuando in lui l’azione del Riparatore. L.C. de Saint-Martin,
nella sua opera "Il mio libro verde", all’art. 145 ci invita a
pregare finché ci sentiamo sollecitati "dal fanatismo di questo
godimento"; e poiché essendo la preghiera un uscire da se
stesso, il che equivale ad un’offerta di sé a Dio, si eleva in questo
modo la propria anima alla partecipazione del mistero d’amore che è
divenuto attuale e che si è comunicato all’umanità con il Riparatore, il
quale trascende la sua storicità essendo Egli la rivelazione e la
redenzione viva nel cuore di ogni uomo che così s’innalza ad artefice
del regno di Dio in terra.
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