Di tutti
i problemi che costantemente hanno preoccupato gli uomini, ve ne è uno, quello
dell’origine del male, che pare esser sempre stato il più difficile da
risolvere, tanto da rivelarsi un ostacolo insormontabile per la maggior parte
dei filosofi e soprattutto dei teologi: Si Deus est, unde Malum?
Si non est, unde Bonum?
Il
dilemma è effettivamente insolubile per coloro che considerano la Creazione come
l’opera diretta di Dio e che, di conseguenza, sono obbligati a ritenerlo
responsabile sia del Bene che del Male. Si dirà senza dubbio che questa
responsabilità è in una certa misura attenuata dalla libertà delle creature; ma
se le creature possono scegliere tra il Bene ed il Male, è segno che entrambi
esistono già, almeno in principio, e se esse talvolta sono piuttosto propense a
decidersi per il Male invece di essere sempre portate al Bene, ciò è dovuto al
fatto che sono imperfette; ma come ha potuto Dio, se è perfetto, creare esseri
imperfetti
È
evidente che il perfetto non può generare l’imperfetto, perché, se così fosse,
il perfetto dovrebbe contenere in se stesso l’imperfetto allo stato principiale
ed allora non sarebbe più il perfetto. L’imperfetto non può dunque procedere dal
perfetto per via di emanazione; potrebbe solo risultare dalla creazione ex
nihilo; ma com’è possibile ammettere che qualcosa possa venire dal nulla, o,
in altri termini, che possa esistere qualcosa che non abbia un principio?
D’altronde, l’ammettere la creazione ex nihilo equivarrebbe ad ammettere
l’annientamento finale degli esseri creati, poiché ciò che ha avuto un inizio
deve anche avere una fine, e non vi sarebbe nulla di più illogico del parlare in
tal caso di immortalità; del resto la creazione così intesa non è che
un’assurdità, perché essa contraddice quel principio di causalità che nessun
uomo ragionevole può in buona fede negare, per cui possiamo dire con Lucrezio «Ex
nihilo nihil, ad nihilum nil posse reverti».
Niente
può esistete che non abbia un principio; ma qual è questo principio? e non vi è
in realtà un principio unico di tutte le cose? Se si considera l’Universo
totale, è evidente che esso comprende tutte le cose, perché tutte le parti sono
contenute nel Tutto; d’altra parte, il Tutto è propriamente illimitato, perché,
se avesse un limite, ciò che è al di là di questo limite non sarebbe compreso
nel Tutto, supposizione, questa, assurda. Ciò che non ha limiti può essere
chiamato l’Infinito, e, comprendendo esso tutto, questo Infinito è il principio
di tutte le cose. D’altronde, l’Infinito è necessariamente unico, perché due
infiniti che non fossero identici si escluderebbero a vicenda; ne consegue
dunque che non vi è che un Principio unico di tutte le cose, e questo Principio
è la Perfezione, poiché l’Infinito può esser tale solamente se esso è perfetto.
Così la
Perfezione è il Principio supremo, la Causa prima; essa contiene tutte le cose
in potenza, ed essa ha prodotto ogni cosa; ma allora, poiché non v’è che un
Principio unico, che ne è di tutte le opposizioni che si colgono abitualmente
nell’Universo: l’Essere ed il Non-Essere, lo Spirito e la Materia, il Bene ed il
Male? Ci ritroviamo così di fronte alla domanda formulata all’inizio e che ora
possiamo porre in un modo più generale: come ha potuto l’Unità produrre la
Dualità?
Certuni
hanno creduto di dover ammettere l’esistenza di due principi distinti, opposti
l’uno all’altro; ma questa ipotesi è da scartarsi per quanto abbiamo
precedentemente detto. Infatti questi due principi non possono essere entrambi
infiniti, perché allora si escluderebbero a vicenda o si confonderebbero; se
solo uno fosse infinito, esso sarebbe il principio dell’altro; e, se entrambi
fossero finiti, non sarebbero veri principi, poiché dire che il finito può
esistere di per se stesso equivarrebbe a sostenere che qualcosa possa venire dal
nulla: infatti tutto ciò che è finito ha un inizio, logico anche se non
cronologico. In tal caso, essendo entrambi finiti, essi devono procedere da un
principio comune, quest’ultimo infinito, e così siamo ricondotti a considerare
un Principio unico. Del resto, molte dottrine, abitualmente ritenute
«dualistiche», non lo sono che apparentemente; nel Manicheismo, così come nella
religione di Zoroastro, il dualismo era una dottrina puramente exoterica che
celava la vera dottrina esoterica dell’Unità: Ormuzd e Ahriman sono entrambi
generati da Zervané-Akerene e dovranno fondersi in lui alla fine dei tempi.
La
Dualità, nell’impossibilità di esistere di per stessa, è dunque necessariamente
prodotta dall’Unità; ma in che modo può prodursi? Per comprenderlo dobbiamo
anzitutto considerare la Dualità nel suo aspetto meno particolaristico, quello
dell’opposizione tra l’Essere ed il Non-Essere; ma poiché l’uno e l’altro sono
necessariamente contenuti nella Perfezione totale, appare subito evidente che
tale opposizione non può essere che apparente. Sarebbe dunque più giusto parlare
solo di distinzione; ma in cosa consiste tale distinzione? esiste in realtà
indipendentemente da noi, od è semplicemente una conseguenza del nostro modo di
vedere le cose?
Se per
Non-Essere si intende il nulla, è inutile parlarne: infatti cosa si può dire del
nulla? Non così se si considera il Non-Essere come possibilità d’Essere;
l’Essere è allora la manifestazione del Non-Essere inteso in questo modo, ed è
contenuto allo stato potenziale in tale Non-Essere. Il rapporto tra il
Non-Essere e l’Essere è dunque il rapporto tra il non-manifestato ed il
manifestato, e si può affermare che il non-manifestato è superiore al
manifestato, di cui è il principio, poiché contiene in potenza tutto il
manifestato ed anche ciò che non è, che non fu, né sarà mai manifestato. Nello
stesso tempo, è evidente che non si può parlare qui di una distinzione reale,
poiché il manifestato è contenuto in principio nel non-manifestato; tuttavia,
noi non possiamo concepire direttamente il non-manifestato se non attraverso il
manifestato; questa distinzione dunque esiste, ma unicamente per noi.
Se ciò
vale per la Dualità colta nel suo aspetto di distinzione tra l’Essere ed il
Non-Essere, a maggior ragione varrà per tutti gli altri aspetti della Dualità. A
questo punto ci si accorge quanto illusoria sia la distinzione tra Spirito e
Materia, sulla quale nondimeno, soprattutto nei tempi moderni, è stato costruito
un così gran numero di sistemi filosofici aventi appunto tale distinzione a
fondamento delle loro teorie, va da sé che se tale distinzione venisse meno,
nulla più rimarrebbe di tutti questi sistemi. Inoltre possiamo notare che la
Dualità non può esistere senza il Ternario: se il Principio supremo,
differenziandosi, dà luogo a due elementi, i quali del resto sono distinti solo
in quanto li reputiamo tali, questi due elementi ed il loro Principio comune
formano un Ternario, sicché in realtà è il Ternario e non il Binario ad essere
immediatamente prodotto dalla prima differenziazione dell’Unità primordiale.
Ritorniamo ora alla distinzione tra il Bene ed il Male, la quale è appunto un
aspetto particolare della Dualità. Quando si oppone il Bene al Male,
generalmente si fa consistere il Bene nella Perfezione. o quantomeno in una
tendenza alla Perfezione, ed allora il Male non è nient’altro che
l’imperfezione: ma come può l’imperfetto opporsi alla Perfezione, Abbiamo visto
che la Perfezione è il principio di tutte le cose e che, d’altra parte, non può
produrre l’imperfetto, donde risulta che in realtà l’imperfetto non esiste, o
almeno non può esistere che come elemento costitutivo della Perfezione totale;
ma allora esso non può essere realmente imperfetto, e quel che noi chiamiamo
imperfezione non è che relatività. Per cui un «errore» non è che una verità
relativa: tutti gli errori, infatti, devono essere contenuti nella Verità
totale, poiché, diversamente, questa trovandosi limitata da qualcosa di
esteriore a se stessa non sarebbe perfetta, cioè non sarebbe la Verità. Gli
errori, o piuttosto le verità relative, non sono che frammenti della Verità
totale; è dunque la frammentazione a produrre la relatività, per cui la si
potrebbe ritenere la causa del Male, sempre che «relatività» fosse realmente
sinonimo di «imperfezione»; sennonché il Male non è tale se non quando lo si
distingue dal Bene.
D’altra
parte, se si chiama Bene il Perfetto, il relativo non ne è realmente distinto,
poiché v’è contenuto in principio; dunque, dal punto di vista universale, il
Male non esiste. Esso esiste solo, se si considerano le cose sotto un aspetto
frammentario ed analitico, separandole dal loro Principio comune invece di
vederle sinteticamente contenute in questo Principio, che è la Perfezione. Così
si crea l’imperfetto; e distinguendo il Male dal Bene, li si crea entrambi
proprio con questa distinzione, poiché il Bene ed il Male sono tali solamente se
messi in opposizione l’uno all’altro; inoltre, se il Male non esiste, non si può
neppure parlare di Bene nel senso ordinariamente attributo a questa parola, ma
solamente di Perfezione. È dunque la fatale illusione del Dualismo ad attuare il
Bene ed il Male, ossia, considerando le cose da un punto di vista particolare, a
sostituire la Molteplicità all’Unità, imprigionando così gli esseri su cui
esercita il suo potere nel dominio della confusone e della divisione: tale
dominio è l’Impero del Demiurgo.
II
Quanto
abbiamo detto sulla distinzione tra il Bene ed il Male permette di comprendere
il simbolismo della Caduta originale, almeno nella misura in cui queste cose
possono venir espresse. La frammentazione della Verità totale, o del Verbo, che
è in fondo la stessa cosa, frammentazione che produce la relatività, è identica
alla segmentazione dell’Adam Kadmon, le cui separate particelle
costituiscono l’Adam Protoplastes, cioè il primo formatore; la causa di
tale segmentazione è Nahash, l’Egoismo o il desiderio dell’esistenza
individuale. Nahash non è affatto una causa esteriore all’uomo, ma è in
lui, inizialmente allo stato potenziale, diventandogli esteriore nella misura in
cui l’uomo stesso l’esteriorizza; questo istinto di separatività, per la sua
natura di provocatore di divisione, spinge l’uomo a gustare del frutto
dell’Albero della Scienza del Bene e del Male. Allora gli occhi dell’uomo si
aprono, perché ciò che era interiore è diventato esteriore in conseguenza della
separazione che si è prodotta tra gli esseri; questi appaiono allora rivestiti
di forme, le quali limitano e definiscono le loro esistenze individuali; e
l’uomo pure è rivestito di una forma, o, secondo l’espressione biblica, di una
«tunica di pelle»; egli si trova così racchiuso nel dominio del Bene e del Male,
nell’Impero del Demiurgo.
Da questa
breve esposizione per sommi capi e molto incompleta, risulta che il Demiurgo non
è affatto una potenza esteriore all’uomo: non è che la stessa volontà dell’uomo
allorquando realizza la distinzione tra il Bene ed il Male. Ma in seguito,
limitato in quanto essere individuale da quella volontà che in realtà è la sua,
l’uomo la ritiene come qualcosa di esteriore, e così essa diventa distinta da
lui, non solo, ma opponendosi essa agli sforzi che l’uomo compie per uscire dal
dominio in cui s’è egli stesso racchiuso, egli la considera come una potenza
ostile, e la chiama Shaitan, l’Avversario. Facciamo notare, del resto,
che questo Avversario, che noi stessi abbiamo creato e che creiamo ad ogni
istante (infatti non si deve pensare che la cosa si svolga in un tempo o in un
luogo determinato) non è affatto cattivo in se stesso, ma è solamente l’insieme
di tutto ciò che ci è contrario.
Da un
punto di vista più generale, il Demiurgo, quale potenza distinta ed in quanto
tale, è appunto il «Principe di questo Mondo» di cui si parla nel Vangelo di S.
Giovanni; anche qui, egli non è propriamente parlando né buono né cattivo, o
piuttosto egli è l’uno e l’altro, poiché contiene in se stesso il Bene ed il
Male. Il suo dominio è il Mondo inferiore, che si oppone al Mondo superiore o
all’Universo principiale da cui è stato separato, ma occorre rilevare che questa
separazione non è mai stata reale in senso assoluto; essa è reale solo nella
misura in cui la realizziamo, perché questo Mondo inferiore è contenuto allo
stato potenziale nell’Universo principiale, essendo evidente che una parte non
può realmente uscire dal Tutto. È questo, d’altronde, che impedisce alla Caduta
di continuare indefinitamente: questa è un’espressione del tutto simbolica, e la
profondità della Caduta è semplicemente la misura del grado di separazione. Con
questa restrizione, il Demiurgo si oppone all’Adam Kadmon o all’Umanità
principiale, manifestazione del Verbo, solamente come una sorta di riflesso,
poiché non ne è affatto un’emanazione e non esiste di per se stesso; ciò è
rappresentato dalla figura dei due Vegliardi dello Zohar e anche dai due
triangoli del Sigillo di Salomone.
Ciò ci
induce a considerare il Demiurgo come un riflesso tenebroso ed invertito
dell’Essere, poiché altro non può essere in realtà. Esso non è dunque un essere,
ma, secondo quanto abbiamo precedentemente detto, può venire inteso come la
collettività degli esseri nella misura in cui essi sono distinti o, se si
preferisce, in quanto essi hanno un’esistenza individuale. Noi siamo esseri
distinti perché creiamo noi stessi la distinzione, la quale non esiste se non
nella misura in cui la creiamo; creando questa distinzione, siamo gli elementi
del Demiurgo, e, fintantoché siamo esseri distinti, apparteniamo al dominio di
questo stesso Demiurgo, il quale è appunto la «Creazione».
Tutti gli
elementi della Creazione, cioè le creature, sono dunque contenuti nel Demiurgo,
stesso, il quale non può trarli che da se stesso, perché la creazione ex
nihilo è impossibile. Considerato come Creatore, il Demiurgo produce per
prima cosa la divisione, dalla quale non è realmente distinto, poiché egli non
esiste che nella misura in cui la divisione stessa esiste; inoltre, siccome la
divisione è la fonte dell’esistenza individuale, ed essendo questa definita
dalla forma, il Demiurgo deve essere considerato come formatore, ed allora egli
è identico all’Adam Protoplastes, così come già abbiamo visto. Si può
ancora dire che il Demiurgo crea la Materia ‑ intendendo con questa parola il
caos primordiale, crogiuolo di tutte le forme – per poi organizzare questa
Materia caotica e tenebrosa, ove regna la confusione, e farne scaturire le
molteplici forme il cui insieme costituisce la Creazione.
Si deve
ora dire che questa Creazione sia imperfetta? Certamente non la si può
considerare perfetta; ma se ci si pone dal punto di vista universale, essa è uno
degli elementi costitutivi della Perfezione totale. La Creazione è imperfetta
solo se la si considera analiticamente e separata dal suo Principio, e lo è
d’altronde nella misura stessa in cui essa è il dominio del Demiurgo; ma, se
l’imperfetto non è che un elemento del Perfetto, esso non sarà veramente
imperfetto, per cui in realtà il Demiurgo ed il suo dominio non esistono, dal
punto di vista universale, così come non esiste la distinzione tra il Bene e il
Male. Ne consegue pure, sempre dallo stesso punto di vista, che la Materia non
esiste: l’apparenza materiale non è che un’illusione, anche se non bisogna
concludere che gli esseri che hanno questa apparenza non esistano, perché
altrimenti si cadrebbe in un’altra illusione, quella di un idealismo esagerato e
mal compreso.
Se la
Materia non esiste, per ciò stesso sparisce la distinzione tra Spirito e
Materia. Tutto è Spirito in realtà, ma questo termine deve essere inteso in un
senso del tutto diverso da quello attribuitogli dalla maggioranza dei filosofi
moderni. Costoro, infatti, pur opponendo lo Spirito alla Materia, non lo
considerano affatto indipendente dalla forma, per cui si può domandare in che
cosa esso si differenzi dalla Materia; e se si afferma che esso è inesteso, a
differenza della Materia che è estesa, come si può sostenere che l’inesteso
possa esser rivestito di una forma? Del resto, perché questo volere definire lo
Spirito? Che ciò avvenga con il pensiero o altrimenti, è sempre con una forma
che si cerca di definirlo, ed allora non si tratterà più dello Spirito. In
realtà, lo Spirito universale è l’Essere, e non questo o quell’altro essere
particolare; è il Principio di tutti gli esseri, e tutti li contiene: perciò
tutto è Spirito.
Quando
l’uomo perviene alla conoscenza reale di questa verità, identifica se stesso ed
ogni cosa allo Spirito Universale, ed allora ogni distinzione per lui scompare,
ed egli contempla tutte le cose come in se stesso e non più come esteriori,
perché l’illusione svanisce di fronte alla Verità, come l’ombra davanti al sole.
Così, da questa stessa conoscenza l’uomo si trova liberato dai legami della
Materia e dell’esistenza individuale, non è più soggetto alla dominazione del
«Principe di questo Mondo», egli non appartiene più all’Impero del Demiurgo.
III
Da quanto
detto in precedenza risulta che l’uomo, nella sua esistenza terrestre, può
liberarsi dal dominio del Demiurgo o del Mondo ilico e che questa liberazione si
opera mediante la Gnosi, cioè mediante la Conoscenza integrale. Tale Conoscenza
non ha niente in comune con la scienza analitica e non la presuppone per nulla.
È un’illusione troppo diffusa ai giorni nostri credere che si possa arrivare
alla sintesi totale attraverso l’analisi; al contrario, la scienza è del tutto
relativa e, limitata com’è al solo Mondo ilico, non esiste più di quanto esista
quest’ultimo, dal punto di vista universale. D’altra parte dobbiamo anche notare
che i differenti Mondi, o secondo l’espressione generalmente ammessa, i diversi
piani dell’Universo, non sono affatto luoghi o regioni, ma modalità
dell’esistenza o stati dell’essere. Il che permette di comprendere come un uomo
vivente sulla terra possa, in realtà, appartenere non soltanto al Mondo ilico,
ma al Mondo psichico o anche al Mondo pneumatico. Ed è questo che costituisce la
«seconda nascita»; tuttavia, essa corrisponde propriamente parlando solo alla
nascita al Mondo psichico, mediante la quale l’uomo diventa cosciente in
entrambi questi due piani, ma senza accedere ancora al Mondo pneumatico, cioè
senza identificarsi allo Spirito universale. Quest’ultimo viene raggiunto
unicamente da chi possiede integralmente la triplice Conoscenza, mediante la
quale è per sempre Liberato dalle nascite mortali: è ciò che si intende con
l’espressione «solo i Pneumatici sono salvati». Lo stato degli Psichici non è
insomma che uno stato transitorio: è lo stato dell’esser già preparato a
ricevere la Luce, pur non percependola ancora, che non ha ancora preso coscienza
della Verità una ed immutabile.
Parlando
di nascite mortali, intendiamo le modificazioni dell’essere, il suo passaggio
attraverso forme molteplici e variabili; in ciò non vi è nulla che rassomigli
alla dottrina della reincarnazione quale la concepiscono gli spiritisti ed i
teosofisti, dottrina della quale un giorno avremo l’occasione di dare maggiori
spiegazioni. Il Pneumatico è liberato dalle nascite mortali, è cioè liberato
dalla forma, dunque dal mondo demiurgico; egli non è più soggetto al cambiamento
e, di conseguenza, egli è non agente; su questo punto ritorneremo più avanti. Lo
Psichico, invece, non va oltre il Mondo della Formazione, quello che è designato
simbolicamente come il Primo Cielo o la sfera della Luna, donde egli ritorna al
mondo terrestre; ciò, in realtà, non significa che assumerà un corpo sulla
Terra, ma semplicemente ch’egli dovrà rivestire nuove forme prima di ottenere la
Liberazione.
Quanto
abbiamo sin qui esposto dimostra l’accordo, anzi, l’identità reale, nonostante
certe differenze nell’espressione, tra la dottrina gnostica e le dottrine
orientali, e più particolarmente con il Vêdânta; il più ortodosso di tutti i
sistemi metafisici fondati sul Brahmanesimo. Possiamo quindi completare le
nostre considerazioni riguardanti i diversi stati dell’essere con alcune
citazioni tratte dal Trattato della Conoscenza dello Spirito di
Shankarâchârya.
«Non vi è
altro mezzo se non la Conoscenza per ottenere la liberazione completa e finale;
essa è il solo strumento che scioglie i legami delle passioni; senza la
Conoscenza, la Beatitudine non può esser ottenuta.
«L’azione, non opponendosi all’ignoranza, non può rimuoverla; ma la Conoscenza
dissolve l’ignoranza così come la Luce dissipa le tenebre».
L’ignoranza è qui lo stato dell’essere avvolto nelle tenebre del Mondo ilico,
legato all’apparenza illusoria della Materia e alle distinzioni individuali;
come abbiamo già visto, tutte queste illusioni scompaiono per mezzo della
Conoscenza, la quale non appartiene affatto al dominio dell’azione e le è
superiore.
«Quando
l’ignoranza che nasce dagli attaccamenti terrestri viene allontanata, lo Spirito
brilla di splendore suo proprio in uno stato indiviso, così come il sole
risplende nel cielo allorquando le nubi si sono disperse».
Ma, prima
di pervenire a questo grado, l’essere passa attraverso uno stato intermedio,
quello corrispondente al Mondo psichico, ove egli non crede più di essere il
corpo materiale bensì l’anima individuale; nondimeno la distinzione continua per
lui a sussistere, poiché non è ancora uscito dal dominio del Demiurgo.
«Immaginando d’essere l’anima individuale, l’uomo è colto dalla paura, come chi
per errore scambia un pezzo di corda per un serpente; tuttavia il suo timore
viene allontanato dalla percezione che egli non è l’anima, ma lo Spirito
universale».
Colui che
ha preso coscienza dei due Mondi manifestati, cioè del Mondo ilico, ossia
l’insieme delle manifestazioni grossolane a materiali, e del Mondo psichico,
ossia l’insieme delle manifestazioni sottili, è un «nato due volte», Dwija;
ma colui che è cosciente dell’Universo non-manifestato o del Mondo senza forma,
cioè del Mondo pneumatico, e che è arrivato alla identificazione di se stesso
con lo Spirito universale, Âtmâ: quegli solo può esser chiamato Yogi,
cioè «unito» allo Spirito universale.
«Lo Yogi,
il cui intelletto è perfetto, contempla tutte le cose in quanto facenti parte di
se stesso, e così, con l’occhio della Conoscenza, percepisce che ogni cosa è
Spirito».
Notiamo
per inciso che il Mondo ilico viene paragonato allo stato di veglia, il Mondo
psichico allo stato di sogno, ed il Mondo pneumatico allo stato di sonno
profondo. Al di sopra dell’Universo pneumatico, secondo la dottrina gnostica, vi
è il Pleroma, il quale può esser inteso come costituito dall’insieme degli
attributi della Divinità. Esso non è un quarto Mondo, ma lo Spirito universale
stesso, Principio supremo dei Tre Mondi, né manifestato, né non-manifestato,
indefinibile, inconcepibile e incomprensibile.
Lo Yogi,
o il Pneumatico, che sono in fondo la stessa cosa, si percepisce, non più come
una forma grossolana, né come una forma sottile, ma come un essere senza forma;
egli si identifica allora allo Spirito universale, stato che è così descritto da
Shankarâchârya:
«Egli è
Brahma, dopo il cui possesso non vi è più nulla da possedere; dopo il godimento
della cui felicità non v’è altra felicità che possa esser desiderata; e dopo
l’ottenimento della cui conoscenza non v’è altra conoscenza che possa esser
ottenuta.
«Egli è
Brahma, la cui vista elimina quella di ogni altro oggetto, l’identificazione con
il quale impedisce ogni ulteriore nascita, dopo la cui percezione, non v’è più
nulla da percepire.
«Egli è
Brahma, che è dovunque: nello spazio mediano, in ciò che gli è superiore ed in
ciò che gli è inferiore. Egli è il Vero, il Vivente, il Beato, senza dualità,
indivisibile, eterno ed unico.
«Egli è
Brahma, senza dimensioni, increato, incorruttibile, senza forma, senza qualità o
caratteristiche.
«Egli è
Brahma, dal quale tutte le cose sono illuminate, la cui luce fa brillare il sole
e gli altri corpi luminosi, ma che non è punto reso manifesto dalla loro luce.
«Egli
stesso penetra la sua propria essenza eterna e contempla il Mondo intero
apparendo come Brahma.
«Brahma
non rassomiglia affatto al Mondo, e al di fuori di Brahma non vi è nulla; tutto
ciò che sembra esistere al di fuori di Lui è un’illusione.
«Di tutto
quanto viene visto, di tutto quanto viene udito, nulla esiste che non sia
Brahma, e, mediante la conoscenza del Principio, Brahma viene contemplato come
l’Essere vero, vivente, beato, senza dualità.
«L’occhio
della Conoscenza contempla l’Essere vero, vivente, beato, che tutto penetra; ma
l’occhio dell’ignoranza non può scoprirlo, né percepirlo, come il cieco non può
vedere la luce.
«Quando
il Sole della Conoscenza spirituale sorge nel cielo del cuore, esso scaccia le
tenebre e tutto penetra abbracciando ed illuminando ogni cosa».
Facciamo
notare che il Brahma di cui si parla qui è il Brahma superiore, da non
confondere con il Brahma inferiore, il quale non è altro che il Demiurgo,
considerato come riflesso dell’Essere. Per lo Yogi, non vi è che il Brahma
superiore, che contiene tutte le cose e al di fuori del quale non v’è nulla: per
lui, il Demiurgo e la sua opera di divisone non esistono più.
«Colui
che ha compiuto il pellegrinaggio del suo proprio spirito, un pellegrinaggio che
nulla ha a che vedere con lo spazio e con il tempo, un pellegrinaggio che si
svolge dappertutto, nel quale non si prova né il freddo, né il caldo, che
procura una felicità perpetua e una liberazione da ogni pena: quegli è senza
azione, conosce tutte le cose, ed ottiene l’eterna Beatitudine».
IV
Dopo aver
esposto le caratteristiche dei tre Mondi e degli stati dell’Essere che vi
corrispondono, ed aver indicato, per quanto possibile, che cosa sia l’essere
liberato dalla dominazione demiurgica, dobbiamo nuovamente ritornare sulla
questione della distinzione tra il Bene ed il Male, onde vedere quali
conseguenze possano trarsi da queste ultime considerazioni.
Di primo
acchito si potrebbe esser tentati di pensare così: se la distinzione tra il Bene
ed il Male è illusoria, se essa in realtà non esiste, lo stesso può dirsi della
morale, poiché la morale si fonda proprio su tale distinzione. Ma sarebbe andar
troppo lontano. La morale esiste, ma nella stessa misura in cui esiste la
distinzione tra il Bene ed il Male, cioè relativamente al dominio del Demiurgo,
mentre dal punto di vista universale, essa non ha alcuna ragione d’essere.
Infatti la morale può trovare applicazione solo nell’azione; l’azione presuppone
il cambiamento, il quale non è possibile che nel formale o nel manifestato; per
contro, il Mondo senza forma è immutabile, superiore al cambiamento, e quindi
anche all’azione, perciò l’essere che non appartiene più all’Impero del Demiurgo
è senza azione.
Ciò
dimostra che occorre fare molta attenzione a non confondere i diversi piani
dell’Universo, perché quel che si afferma a proposito di un piano può non esser
vero per un altro. Ad esempio, la morale esiste necessariamente nel piano
sociale, che è essenzialmente il dominio dell’azione, mentre non se ne può più
parlare quando si passa a considerare il piano metafisico o universale, poiché
allora non v’è più alcun genere di azione.
Chiarito
questo punto, dobbiamo far rilevare che l’essere che è superiore all’azione
possiede tuttavia la pienezza dell’attività; ma si tratta di un’attività
potenziale, quindi di un’attività che non si esplica in azioni. Questo essere
non è affatto immobile, come a torto si potrebbe dire, ma immutabile, cioè
superiore al cambiamento. In effetti, egli si identifica con l’Essere, il quale
è sempre identico a se stesso conformemente all’espressione biblica: «L’Essere è
l’Essere». Il che ci induce ad un accostamento con la dottrina taoista, secondo
la quale l’attività del Cielo è non-agente: il Saggio, in cui si riflette
l’Attività del Cielo, si attiene al non-agire. Tuttavia questo Saggio, che in
precedenza abbiamo chiamato Pneumatico o Yogi, può presentare le apparenze
dell’azione, così come la Luna può assumere le apparenze del movimento
allorquando le nubi le passano davanti, ma il vento che sospinge le nubi non ha
influenza alcuna sulla Luna. Similmente, l’agitazione del Mondo demiurgico non
influisce sul Pneumatico, e, a questo proposito, possiamo ancora citare alcuni
passi di Shankarâchârya:
«Lo Yogi,
avendo attraversato il mare delle passioni, si unisce alla Tranquillità e si
allieta nello Spirito.
«Avendo
rinunciato ai piaceri offerti dagli oggetti perituri e godendo delle delizie
spirituali, egli è calmo e sereno come la fiamma di una lampada, e si delizia
nella sua propria essenza.
«Durante
la sua permanenza nel corpo, non è modificato dalle proprietà di questo, così
come il firmamento non è turbato dal movimento che si svolge nel suo seno;
conoscendo tutte le cose, le contingenze non lo toccano».
Possiamo
così comprendere il vero significato della parola Nirvâna, di cui sono
state date tante e così false interpretazioni. Essa significa letteralmente
«cessazione del soffio e dell’agitazione», dunque lo stato di un essere che non
è più soggetto all’agitazione, che è definitivamente libero dalla forma. Un
errore molto diffuso, almeno in Occidente, è quello di ritenere che non vi sia
più nulla quando si sia in assenza di una forma, mentre, in realtà, la forma è
nulla e l’informale è tutto; per cui il Nirvâna, lungi dall’essere
l’annientamento, come hanno preteso certi filosofi, è. al contrario la pienezza
dell’essere.
Da tutto
quanto abbiamo sinora esposto si potrebbe concludere che non occorra affatto
agire; ma ciò è ancora inesatto, se non in principio, almeno nell’applicazione
che se ne vorrebbe fare. Infatti l’azione è propriamente la condizione degli
esseri individuali appartenenti all’Impero del Demiurgo. Il Pneumatico, o il
Saggio, è in realtà senza azione, ma, risiedendo in un corpo, è del tutto simile
agli altri uomini; tuttavia sa che si tratta solo di un’apparenza illusoria, e
ciò è sufficiente affinché egli sia realmente affrancato dall’azione, poiché è
mediante la Conoscenza che si ottiene la Liberazione. Essendo affrancato
dall’azione, non è più soggetto alla sofferenza; questa non è che un risultato
dello sforzo, ed è in ciò che consiste la cosiddetta imperfezione, anche se in
realtà non vi è nulla di imperfetto.
È
evidente che l’azione non può esistere per colui che contempla tutte le cose in
se stesso, come esistenti nello Spirito universale, senza che vi si distinguano
oggetti individuali, così come è espresso dalle seguenti parole dei Vêda:
«Gli oggetti differiscono solamente per i loro nomi, accidenti e designazioni,
così come le suppellettili ricevono nomi differenti, sebbene siano in realtà
solamente diverse forme di terra». La terra, principio di tutte queste forme, è
di per se stessa senza forma, ma tutte le contiene in potenza: tale è anche lo
Spirito universale.
L’azione
implica il cambiamento, cioè la distruzione incessante di forme che scompaiono
per essere sostituite da altre: tali sono le modificazioni che noi chiamiamo
nascita e morte, cioè i molteplici cambiamenti di stato che devono essere
attraversati dall’essere che non ha ancora raggiunto la liberazione o la
«trasformazione» finale, parola, questa, da intendersi nel suo significato
etimologico, che è quello di passaggio al di là della forma. L’attaccamento alle
cose individuali, o alle forme transitorie e periture è proprio dell’ignoranza;
le forme non sono niente per l’essere che è liberato dalla forma, ed è per
questo motivo che egli, anche durante la permanenza nel corpo, non è modificato
dalle proprietà di quest’ultimo.
«Così
egli si muove, libero come il vento, poiché i suoi movimenti non sono ostacolati
dalle passioni.
«Quando
le forme sono distrutte, lo Yogi entra, con tutti gli esseri, nell’Essenza che
tutto penetra. Egli è senza qualità e senza azione; imperituro, senza volizione;
felice, immutabile, eternamente libero e puro.
«Egli è
come l’etere che è diffuso dappertutto, e che penetra nel contempo l’esterno e
l’interno delle cose; egli è incorruttibile, imperituro; egli è sempre lo stesso
in tutte le cose, puro, impassibile, senza forma, immutabile,
«Egli è
il supremo Brahma, che è eterno, puro, libero, solo, incessantemente colmo di
beatitudine, senza dualità, Principio di ogni esistenza, e senza fine».
Questo è
lo stato al quale perviene l’essere mediante la Conoscenza spirituale, liberato
per sempre dalle condizioni dell’esistenza individuale, liberato cioè
dall’Impero del Demiurgo.
Pubblicato nel 1909 nel n. 1
di La Gnose. L’Autore, allora ventiduenne, firmava con lo pseudonimo di
Palingenius. (R.S.T., n. 33)