martedì 9 aprile 2013

L'Ammirazione - Ovidio La Pera


Oltre alle tante opere scritte dal nostro filosofo e giunte a noi, ve ne sono altre che erano in progetto, ma che poi non furono portate a termine, e tra queste, ve n’era una, intitolata: “Trattato sull’ammirazione”. Di questo “Trattato” ci sono però giunti alcuni frammenti di notevolissimo interesse e su cui ci intratterremo in quanto ci aiutano a capire più compiutamente le considerazioni di Louis Claude de Saint Martin sull’uomo, oltre quelle già prese in esame nei precedenti capitoli.
Questi frammenti sono stati pubblicati nel 1807, dal cugino Nicola Tournyer, assieme ad altri frammenti di scritti del nostro autore, in una raccolta intitolata “Opere postume”, in due volumi.[1]
Nell’introduzione di questo frammento, l’Autore ci fa sapere che ha creduto di rendere un servizio ai suoi simili scrivendo questo “Trattato”, poiché essi, fissando la loro attenzione sul concetto d’ammirazione e quindi su di un vero tesoro che è a portata di mano per chiunque, potevano procurare delle luci alla loro intelligenza e dei godimenti al loro essere essenziale. 
Le osservazioni da lui fatte sull’ammirazione lo hanno portato, inoltre, ad esprimere il suo pensiero sul problema dell’ateismo; del quale ci occuperemo dopo aver esaminato questo vero tesoro di cui egli parla, tesoro che, secondo quanto egli afferma, è tanto vicino a noi e dal quale vedremo provenire potenti meraviglie, consistenti in una verità semplice e comune in apparenza, ma di cui finora, non si è abbastanza considerato il valore.
Questa verità, ad un tempo vasta e semplice, sublime e comune di cui egli parla nel suo “Trattato”, eccola esposta nella seguente opera che ne contiene i frammenti:
 


OPERE POSTUME

Dal Vol. 2°, Cap.: L’anima dell’uomo non può vivere che d’ammirazione.

Sotto qualsiasi rapporto si consideri l’uomo, non si troverà nulla in lui che non sia una testimonianza in favore di quest’assioma. L’uomo che si nutre di verità, è felice solamente perché vi trova di che ammirare. L’uomo che ama non è in un amore vero che per quanto egli può realmente ammirare ciò che ama. L’uomo stesso che s’inganna, sia nelle sue luci, sia nel suo amore, ammira ancora, sebbene la sua ammirazione sia fragile e passeggera come gli oggetti illusori ai quali aveva imprudentemente abbandonato il suo cuore ed il suo spirito. Infine allorché l’uomo non ammira, è vuoto e nullo: egli è come immerso in un sonno spesso e tenebroso.
Se tale è la maniera d’essere costitutiva dell’uomo, dobbiamo credere che la nostra natura non ci avrebbe formati con un bisogno così universale e così imperioso, se non avesse nello stesso tempo provveduto ai modi di soddisfarlo; essa non può essere meno saggia e meno feconda delle altre madri le quali tutte possono fornire abbondantemente ai loro figli, tutte le sussistenze di cui la loro legge li rende avidi.
 Ma ciò che egualmente certo è che noi ammiriamo le cose in quanto esse sono al di sopra di noi. Le più grandi meraviglie cessano di soggiogarci fin dall’istante ch’esse cessano di sorprenderci e possiamo anche aggiungere anticipatamente, che queste stesse meraviglie cessano di contribuire ai nostri piaceri, fin dall’istante in cui esse cessano di soggiogarci, tanto è vero che vi è per noi solamente un’alternativa, quella della penuria o di un’ammirazione che ci domini».
Da tutto ciò, risulta che se la nostra essenza costitutiva è il bisogno d’ammirare, se la nostra natura non può averci dato un simile bisogno, senza ch’essa sia sempre pronta a soddisfarla; infine, se non ammiriamo che ciò che è al di sopra di noi, bisogna che vi sia incessantemente ed eternamente qualcosa al di sopra di noi che noi possiamo ammirare in tutti i momenti, o ci sentiremo pressati dalla sete dell’ammirazione.
Questi dati semplici e che ogni uomo può verificare, ci conducono naturalmente e mediante la logica più rigorosa, alla dimostrazione dell’esistenza di una sorgente necessaria e permanente, da cui gli oggetti d’ammirazione possono discendere continuamente accanto a noi alla voce dei nostri bisogni, come i fiumi non cessano di sorgere dal seno della Terra per irrigare e ravvivare tutte le sue produzioni, e come il latte è sempre pronto ad uscire dalla mammella ai minimi desideri del bambino.
Perciò questa sorgente permanente ed eterna, di cui l’esistenza ci è indispensabile perché non languiamo nel nostro appetito radicale d’ammirazione, infine questo necessario meraviglioso che deve sempre essere al di sopra di noi, perché tutto godendo, non possiamo impadronircene, non corriamo alcun rischio chiamandolo Dio, poiché presso tutti i popoli e in tutti i luoghi, questo nome ha presentato l’idea di un essere che è più di noi, ma che racchiude per noi tutte le sorgenti d’ammirazione delle quali il bisogno possa nascere nel nostro spirito; in effetti, non può essere che in questa regione superiore ed eterna dell’ammirazione che gli uomini di tutti i tempi hanno attinto l’idea primitiva di una divinità, nonostante le applicazioni false ed abusive che ne hanno fatto e che ne possono fare ancora. È solamente qui ch’essi trovano da risvegliare e nutrire in loro l’ammirazione della potenza mediante le opere meravigliose che si sviluppano ai loro occhi, l’ammirazione della saggezza e dell’intelligenza mediante le profondità in cui lo spirito può penetrare, l’ammirazione dell’amore mediante il sentimento delle abbondanti fecondità di cui questa sorgente può arricchire l’anima umana.
Ora, perché questa sorgente superiore ha così abbondantemente di che bastare ai nostri diversi bisogni d’ammirazione? Non rimandiamo più a lungo di manifestarlo: è ch’essa stessa si nutre solamente di questa sostanza; è che essendo eternamente nell’attività ineffabile e creatrice della sua propria generazione, essa è eternamente nelle delizie della sua propria ammirazione; è che il suo pensiero abbraccia ed afferra ad un tempo tutta l’universalità del suo essere, e non è esposto come in noi a non abbracciare che delle facoltà parziali, da cui risultano delle disuguaglianze e dei difetti di misura; è che essa non può così che amarsi sempre e compiacersi eternamente ed universalmente in se stessa; è infine che essendo continuamente piena del suo proprio amore e della sua propria ammirazione, allorché versa su di noi in qualche modo la sovrabbondanza dei suoi tesori, essa non vi può versare che la sovrabbondanza della sua ammirazione e del suo amore. Ecco già alcuni dei frutti della proposizione ad un tempo semplice ed immensa che abbiamo presentato; cioè: che l’anima dell’uomo non può vivere che d’ammirazione.

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A questo punto, l’Autore ci dà una nuova proposizione non meno feconda della precedente e cioè:                
            “L’uomo è il solo che sia suscettibile d’ammirazione fra tutti gli esseri della natura”.
E proseguendo afferma che l’uomo è il solo essere fra tutti gli esseri della natura ad essere suscettibile d’ammirazione, perciò è il solo ad avere dei rapporti d’analogia con la sorgente universale dell’ammirazione e quindi con Dio, poiché senza analogia l’uomo mai potrebbe essere colpito da alcun movimento d’ammirazione, nonostante la magnificenza delle meraviglie che la sorgente eterna espone davanti a lui, e questi rapporti lo elevano di conseguenza, rispetto a tutti gli altri esseri della natura, al rango più sublime dopo Dio, essendone contemporaneamente il riflesso e lo specchio. Ma essendo l’uomo suscettibile d’ammirazione solamente perché trova la sua analogia nella sorgente eterna, a maggior ragione bisogna che questa sorgente eterna trovi dell’analogia nell’uomo per trasmettergli efficacemente le basi d’ammirazione di cui essa è il principio generatore, facendoci così divenire i suoi cooperatori nello sviluppo delle sue meraviglie grazie all’espansione della sua ammirazione. Pertanto, questa sorgente, ovvero Dio, può farsi conoscere solamente attraverso la felicità o l’ammirazione, poiché Egli stesso è la felicità e l’ammirazione dal momento che ne porta tanta in noi stessi allorché abbiamo la fortuna di avvertire il suo approccio. Ma se sciaguratamente rimproverassimo la Divinità di non averci fatto come Lei, vedremmo che, se così fosse, saremmo uguali a Lei e conseguentemente non saremmo stati fatti, essendo Lei ammirabile solamente perché non è stata fatta e noi non avremmo nulla da chiedere, poiché saremmo  come Dio.

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[1] Alla morte di L. C. de Saint-Martin avvenuta, secondo quanto ci racconta il suo amico e discepolo J.B.M. Gence il 13 ottobre 1803, la maggior parte dei suoi manoscritti furono affidati, dall’unica erede Louise-Françoise marchesa dell’Estenduère, sorella di Saint-Martin, a Nicolas Tournyer, cugino di parte materna.
Nel 1807 Nicolas Tournyer pubblicò in due volumi, intitolati “Opere postume”, una raccolta tratta dai suddetti manoscritti ricevuti, comprendente oltre al “Trattato sull’Ammirazione, quello delle Benedizioni, “le vie della Saggezza”, delle raccolte di pensieri, varie sue poesie tra cui “Il Cimitero d’Amboise”, “La questione proposta dall’Accademia di Berlino”, dieci sue preghiere e tanti altri scritti.

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