mercoledì 31 luglio 2013

Introduzione a la Metafisica del Numero di René Guénon


Introduzione a la Metafisica del Numero 

René Guénon



Benché il presente studio sembri, almeno a prima vista, avere un carattere alquanto "speciale", ci è parso utile intraprenderlo per precisare e spiegare più completamente certe nozioni da noi richiamate nelle diverse occasioni in cui ci siamo serviti del simbolismo matematico, e questa ragione basterebbe a giustificarlo senza insistere oltre. Tuttavia, dobbiamo dire che vi si aggiungono altre ragioni secondarie, che concernono soprattutto quel che si potrebbe chiamare l'aspetto "storico" della questione; questo, in effetti, non è interamente privo di interesse per il nostro punto di vista, nel senso che tutte le discussioni che sono state sollevate sulla natura e sul valore del calcolo infinitesimale offrono un sorprendente esempio di quella assenza di principi che caratterizza le scienze profane, cioè le sole scienze che i moderni conoscono e anzi concepiscono come possibili. Abbiamo spesso fatto rilevare che la maggior parte di queste scienze, anche nella misura in cui ancora corrispondono a qualche realtà, non rappresentano nulla di più di semplici residui naturali di alcune delle antiche scienze tradizionali: è la parte più inferiore di quelle che, avendo cessato d'esser posta in relazione coi principi, e avendo perduto per ciò il suo vero significato originale, ha finito per assumere uno sviluppo indipendente e per essere ritenuta come una conoscenza sufficiente a se stessa, benché, in verità, il suo valore peculiare come conoscenza si trovi precisamente ridotto con ciò stesso quasi a nulla. La qual cosa è soprattutto evidente quando si tratta delle scienze fisiche, ma, come abbiamo già spiegato altrove (1), la stessa matematica moderna non fornisce sotto questo aspetto una eccezione, se la si confronta a quel che erano per gli antichi la scienza dei numeri e la geometria; e, quando qui parliamo degli antichi, bisogna comprendervi anche l'antichità "classica", come il minimo studio delle teorie pitagoriche e platoniche basta a dimostrare, o almeno lo dovrebbe se non si dovesse tener conto della straordinaria incomprensione di coloro che oggi pretendono di interpretarle; se questa incomprensione non fosse così completa, come si potrebbe sostenere, per esempio, l'opinione di una origine "empirica" delle scienze in questione, quando, in realtà, appaiono al contrario tanto più lontane da ogni empirismo quanto più si risalga lontano nel tempo, così come accade d'altronde per ogni altra branca della conoscenza scientifica?
I matematici, nell'epoca moderna, e più particolarmente ancora nell'epoca contemporanea, sembrano essere arrivati ad ignorare quel che è il numero veramente; e noi non intendiamo parlare sol tanto del numero preso in senso analogico e simbolico come lo intendevano i Pitagorici e i Kabbalisti, cosa che è troppo evidente, ma anche, cosa che può sembrare più strana e quasi paradossale, del numero nella sua accezione semplicemente e propriamente quantitativa. In effetti essi riducono ogni loro scienza al calcolo, secondo la più ristretta concezione che se ne possa avere, cioè considerato come un semplice insieme di procedimenti più o meno artificiali e che non valgono insomma che per le applicazioni pratiche alle quali danno luogo; in fondo, ciò significa dire che essi sostituiscono il numero con la cifra, e, del resto, questa confusione del numero con la cifra è così estesa oggi che si potrebbe facilmente ritrovarla ad ogni piè sospinto persino nelle espressioni del linguaggio corrente (2). Ora la cifra non è, in tutto rigore, niente di più che il vestito del numero; non diciamo anche il suo corpo, perché è piuttosto la forma geometrica che, sotto certi aspetti, può essere legittimamente considerata come costituente il vero corpo del numero, come dimostrano anche le teorie degli antichi sui poligoni e sui poliedri, messi in rapporto diretto con il simbolismo dei numeri; e ciò si accorda d'altronde con il fatto che ogni "incorporazione" implica necessariamente una "spazializzazione". Noi non vogliamo, tuttavia, che le cifre stesse possano dirsi segni interamente arbitrari, la cui forma non sarebbe stata determinata che dalla fantasia di uno o più individui; deve valere per i caratteri numerici ciò che vale per i caratteri alfabetici, dai quali d'altra parte i primi non si distinguono affatto in certe lingue (3), e si può applicare agli uni come agli altri la nozione di una origine geroglifica, cioè ideografica o simbolica, che vale per tutte le scritture senza eccezioni, per quanto dissimulata questa origine possa essere in certi casi dalle deformazioni o dalle alterazioni più o meno recenti.
Ciò che c'è di certo, è che i matematici impiegano nella loro notazione dei simboli di cui non conoscono più il senso, e che sono come delle vestigia di dimenticate tradizioni; e quel che è più grave, è che non solamente essi non si domandano quale possa essere questo senso, ma anche sembra che non vogliano che ve ne sia uno. In effetti, essi tendono sempre di più a considerare ogni notazione come una semplice "convenzione", con il che intendono qualche cosa che è data in maniera del tutto arbitraria, ciò che, in fondo, è una vera impossibilità, perché non si fa mai una qualsiasi convenzione senza aver qualche ragione di farla, e di fare precisamente quella piuttosto che ogni altra possibile; è soltanto a coloro che ignorano questa ragione che la convenzione può apparire arbitraria, come non è che a coloro che ignorano le cause di un avvenimento che questo può sembrare "fortuito"; è ciò che accade in questo caso, e vi si può vedere una delle conseguenze più estreme dell'assenza di ogni principio, che arriva fino a far perdere alla scienza, o alla sedicente tale, poiché allora essa non merita più veramente questo nome sotto nessun riguardo, ogni significato plausibile. D'altra parte, per il fatto stesso della concezione attuale di una scienza esclusivamente quantitativa, questo "convenzionalismo" si estende poco a poco dalla matematica alle scienze fisiche nelle loro teorie più recenti, che così si allontanano sempre più dalla realtà che pretendono di spiegare; abbiamo insistito su ciò sufficientemente in un'altra opera e ci dispensiamo dal parlarne ancora, tanto più che è della sola matematica che ora ci dobbiamo occupare più particolarmente. Sotto questo punto di vista, aggiungeremo soltanto che, quando si perde così completamente di vista il senso di una notazione, è poi facilissimo passare dall'uso legittimo e valido di quella ad un uso illegittimo, che non corrisponde più effettivamente a nulla, e che può anche essere talvolta del tutto illogico; ciò può sembrare abbastanza straordinario quando si tratta di una scienza come la matematica, che dovrebbe avere con la logica legami particolarmente stretti, e tuttavia è talmente vero che si può rilevare una molteplicità di illogismi nelle notazioni matematiche come sono comunque concepite nella nostra epoca.
Uno degli esempi più notevoli di queste notazioni illogiche, proprio quello che dovremo esaminare qui prima di tutto, benché non sia il solo che incontreremo nel corso della nostra esposizione, è quello del preteso infinito matematico o quantitativo, che è la fonte di quasi tutte le difficoltà che sono state sollevate verso il calcolo infinitesimale, o, forse più esattamente, contro il metodo infinitesimale, poiché qui c'è qualcosa che oltrepassa la portata di un semplice "calcolo" nel senso ordinario di questa parola, checché ne possano pensare i "convenzionalisti"; non vi sono eccezioni da fare che per quelle di queste difficoltà che provengono da una concezione erronea o insufficiente della nozione di "limite", indispensabile per giustificare il rigore di questo metodo infinitesimale e per farne un'altra cosa che un semplice metodo di approssimazione. C'è d'altra parte, come vedremo, una distinzione da fare tra i casi in cui il cosiddetto infinito non esprime che una pura e semplice astrusità, cioè una idea contraddittoria in se stessa, come quella del "numero infinito", e quei casi in cui esso è semplicemente impiegato in maniera abusiva nel senso di indefinito; ma non bisognerebbe credere per questo che la stessa confusione dell'infinito e dell'indefinito si riduca ad una semplice questione di parole, poiché veramente essa si basa sulle idee stesse Quel che è singolare, è che questa confusione, che sarebbe stato sufficiente dissipare per eliminare tante discussioni, sia stata commessa da Leibnitz stesso, che è generalmente ritenuto come l'inventore del calcolo infinitesimale, e che chiameremmo piuttosto il suo "formulatore", poiché questo metodo corrisponde a certe realtà, che, come tali, hanno una esistenza indipendente da colui che le concepisce e che le esprime più o meno perfettamente; le realtà dell'ordine matematico non possono, come tutte le altre, che essere scoperte e non inventate, mentre, al contrario, è di "invenzione" che si tratta allorché, come pure accade troppo spesso in questo dominio, ci si lascia trascinare, effettivamente da un "gioco di notazione", nella pura fantasia; ma sarebbe sicuramente ben difficile far comprendere questa differenza a dei matematici che si immaginano volentieri che tutta la loro scienza non è e non deve essere niente altro che una "costruzione dello spirito umano", cosa che, se bisognasse credere a loro, la ridurrebbe certo a non essere in verità che ben poca cosa! Comunque, Leibnitz non seppe mai spiegarsi chiaramente sui principi del suo calcolo, e ciò ben dimostra che qui vi era qualcosa che lo oltrepassava e che gli si imponeva in una qualche maniera senza che egli ne avesse coscienza; se se ne fosse reso conto, non si sarebbe sicuramente impegnato in una disputa di "priorità" con Newton, e d'altra parte tali dispute sono sempre perfettamente vane, poiché le idee, in quanto sono vere, non potrebbero essere proprietà di qualcuno, nonostante l'"individualismo moderno", e non v'è che l'errore che possa essere propriamente attribuito agli individui umani. In seguito non ci dilungheremo su questa questione, che ci potrebbe trascinare molto lontano dall'oggetto del nostro studio, benché può darsi che non sia inutile, sotto certi punti di vista, far comprendere che il ruolo di coloro che si chiamano "grandi uomini" è spesso, per una buona parte, un ruolo di "recettori", sebbene essi siano generalmente i primi a illudersi della loro "originalità".
Ciò che ci concerne più direttamente per il momento, è questo: se dobbiamo constatare tali insufficienze in Leibnitz, e delle insufficienze tanto più gravi in quanto esse vertono soprattutto sui problemi dei principi, che ne potrà essere degli altri filosofi e matematici moderni, ai quali egli è malgrado tutto sicuramente molto superiore? Questa superiorità, egli la deve, da una parte, allo studio che aveva fatto delle dottrine scolastiche del medioevo, benché egli non le abbia sempre interamente comprese, e, d'altra parte, a certi dati esoterici, di origine o di ispirazione principalmente Rosicruciana (4), dati evidentemente molto incompleti e anche frammentari, e che d'altra parte gli accadde talvolta di applicare assai male, come ne vedremo qualche esempio proprio qui; è a queste due "fonti", per parlare come gli storici, che conviene riferire, in definitiva, quasi tutto ciò che c'è di realmente valido nelle sue teorie, e è ciò che anche gli permise di reagire, benché imperfettamente, contro il cartesianismo, che rappresentava allora, nel doppio dominio filosofico e scientifico, tutto l'insieme delle tendenze e delle concezioni più specificatamente moderne. Questa nota è sufficiente insomma a spiegare, con qualche parola, tutto quel che fu Leibnitz, e, se si vuol comprenderlo, non bisognerebbe mai perdere di vista queste indicazioni generali, che noi abbiamo creduto sia stato, per questa ragione, bene formulare all'inizio; ma è tempo di lasciare queste considerazioni preliminari per entrare nell'esame delle questioni stesse che ci permetteranno di determinare il vero significato del calcolo infinitesimale.
Note
1. Vedere Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi.
2. La stessa cosa accade ai "pseudo-esoteristi" i quali sanno così poco di ciò di cui vogliono parlare che non mancano mai di commettere questa stessa confusione nelle elucubrazioni fantasiose che essi hanno la pretesa di sostituire alla scienza tradizionale dei numeri!
3. L'ebraico e il greco ricadono in questo caso, ed anche l'arabo prima dell'introduzione dell'uso delle cifre indiane, le quali, in seguito, più o meno modificandosi durante il Medioevo passarono in Europa; si può notare, a tale proposito che la stessa parola cifra non è altro che la parola araba çifr, sebbene quest'ultima sia in realtà la designazione dello zero. è vero che in ebraico, d'altra parte, saphar significa "contare" o "numerare" come anche "scrivere", da cui sepher, "scrittura" o "libro" (in arabo sifr, che designa particolarmente un libro sacro), e sephar, "numerazione" o "calcolo"; da quest'ultima parola proviene anche la designazione dei Sephiroth della Kabbala, che sono le "numerazioni" principali assimilate agli attributi divini.
4. Il marchio innegabile di questa origine si trova nella figura ermetica posta da Leibnitz all'inizio del suo trattato De arte combinatoria: è una rappresentazione della Rota Mundi, nella quale al centro della doppia croce degli elementi (fuoco e acqua, aria e terra) e delle qualità (caldo e freddo, secco e umido), la quinta essentia è simboleggiata da una rosa a cinque petali (corrispondente all'etere considerato in se stesso e quale principio degli altri quattro elementi); naturalmente, questo "disegno" è passato completamente inosservato a tutti i commentatori universitari.

venerdì 26 luglio 2013

TAVOLA DI SMERALDO



«
 Verum, sine mendacio certum et verissimum,
quod est inferius, est sicut quod est superius, et quod est superius, est sicut quod est inferius: ad perpetranda miracula rei unius. Et sicut omnes res fuerunt ab uno, mediatione unius; sic omnes res natae fuerunt ab hac una re, adaptatione. Pater eius est sol, mater eius luna; portauit illud ventus in ventre suo: nutrix eius terra est. Pater omnis telesmi totius mundi est hic. Vis eius integra est, si versa fuerit in terram. Separabis terram ab igne, subtile a spisso, suaviter cum magno ingenio. Ascendit a terra in coelum, iterumque descendit in terram, et recipit vim superiorum et inferiorum. Sic habebis gloriam totius mundi. Ideo fugiat a te omnis obscuritas. Hic est totius fortitudinis fortitudo fortis; quia vincet omnem rem subtilem, omnemque solidam penetrabit. Sic mundus creatus est. Hinc erunt adaptationes mirabiles, quarum modus hic est. Itaque vocatus sum Hermes Trismegistus, habens tres partes philosophiæ totius mundi. Completum est quod dixi de operatione solis. »
Traduzione:
« Il vero senza menzogna, è certo e verissimo.
Ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso per fare i miracoli della cosa una. E poiché tutte le cose sono e provengono da una, per la mediazione di una, così tutte le cose sono nate da questa cosa unica mediante adattamento. Il Sole è suo padre, la Luna è sua madre, il Vento l'ha portata nel suo grembo, la Terra è la sua nutrice. Il padre di tutto, il fine di tutto il mondo è qui. La sua forza o potenza è intera se essa è convertita in terra. Separerai la Terra dal Fuoco, il sottile dallo spesso dolcemente e con grande industria. Sale dalla Terra al Cielo e nuovamente discende in Terra e riceve la forza delle cose superiori e inferiori. Con questo mezzo avrai la gloria di tutto il mondo e per mezzo di ciò l'oscurità fuggirà da te. È la forza forte di ogni forza: perché vincerà ogni cosa sottile e penetrerà ogni cosa solida. Così è stato creato il mondo. Da ciò saranno e deriveranno meravigliosi adattamenti, il cui metodo è qui. È perciò che sono stato chiamato Ermete Trismegisto, avendo le tre parti della filosofia di tutto il mondo. Completo è quello che ho detto dell'operazione del Sole. »

Spirito nel corpo o corpo nello spirito? di René Guénon



Spirito nel Corpo o Corpo nello Spirito? 

René Guénon



La concezione corrente, secondo cui lo spirito risiede in qualche modo nel corpo, non può che sembrare molto strana a chiunque possieda anche soltanto le più elementari nozioni di metafisica, non solo perché lo spirito non può essere «localizzato », ma perché, anche se si tratta solo di un «modo di dire» più o meno simbolico, è evidente in esso l' illogicità ed il capovolgimento dei rapporti normali. In effetti, lo spirito non è altro che Atma, il principio di tutti gli stati dell' essere in tutti i gradi della sua manifestazione; orbene, tutte le cose sono necessariamente contenute nel loro principio, e in realtà non possono in alcun modo esserne fuori, né tanto meno rinchiuderlo nei loro limiti; sono dunque tutti questi stati dell' essere, e per conseguenza anche il corpo che è semplicemente una modalità d' uno di questi, a dover essere in definitiva contenuti nello spirito, e non viceversa: Il «meno» non può contenere il «più », né tanto meno produrlo, il che è d' altronde applicabile a diversi livelli, come vedremo in seguito; ma consideriamo per il momento il caso estremo, quello che concerne il rapporto tra il principio stesso dell' essere e la modalità più ristretta della sua manifestazione individuale umana. A tutta prima si potrebbe essere tentati di concludere che la concezione corrente sia dovuta unicamente ad ignoranza da parte della grande maggioranza degli uomini, e corrisponda ad un semplice errore di linguaggio ripetuto senza riflettere per la forza dell'abitudine; ma la questione non è cosi semplice, e questo errore, se errore esiste, ha ragioni ben più profonde di quanto a prima vista si potrebbe credere.

A queste considerazioni, bisogna premettere che l' immagine spaziale del «contenente» e del «contenuto » non deve essere presa alla lettera, poiché uno solo di questi due termini, il corpo, possiede effettivamente il carattere spaziale, lo spazio non essendo niente altro che una delle condizioni proprie dell' esistenza corporea. L' impiego del simbolismo spaziale e di quello temporale, come abbiamo ripetutamente spiegato, non solo è legittimo, ma anche inevitabile, in quanto necessariamente dobbiamo servirci d' un linguaggio il quale, essendo quello dell' uomo corporeo, è anch' esso sottoposto alle condizioni determinanti l' esistenza di quest' ultimo come tale: basta aver sempre presente che tutto quanto non appartiene al mondo corporeo non può essere, in realtà, né nello spazio né nel tempo... Secondo la dottrina indù, si sa infatti che jivatma, il quale è in realtà Atma stesso, ma considerato nel suo rapporto con l' individualità umana, risiede nel centro di questa ed è rappresentato simbolicamente dal cuore; ciò non vuole affatto dire che jivatma sia racchiuso nell' organo corporeo che porta questo nome, o in un organo sottile corrispondente; implica invece che, in un certo senso, sia situato nell' individualità, e più precisamente nella parte più centrale di questa. Atma non può essere veramente né manifestato né individualizzato e, a maggior ragione, non può essere incorporato; e tuttavia, in quanto jivatma, appare come se fosse individualizzato e incorporato; evidentemente questa apparenza non può essere che illusoria riguardo ad Atma, e nondimeno ha una sua esistenza da ,un certo punto di vista, quello stesso punto di vista, proprio della manifestazione individuale umana, per cui jivatma sembra essere distinto da Atma. È dunque da questo punto di vista che si può dire che lo spirito è situato
nell' individuo; e inoltre si potrà dire che è situato nel corpo, a condizione di non scorgervi una «localizzazione» in senso letterale, se lo si considera dal punto di vista più particolare della modalità corporea di tale individualità; non si tratta dunque d' un vero e proprio errore, ma solamente dell' espressione d' una illusione che, pure essendo tale se riferita alla realtà assoluta, corrisponde tuttavia ad un certo grado della realtà, quello stesso degli stati di manifestazione ai quali detta illusione si riferisce, e che diventa errore solo quando si ha la pretesa di applicarla alla concezione dell' essere totale, come se il principio stesso di quest' ultimo potesse essere influenzato o modificato da uno dei suoi stati contingenti.

Abbiamo finora fatto una distinzione tra la modalità corporea dell' individualità e l' individualità integrale, quest' ultima comprendente anche tutte le modalità sottili; e, a questo proposito, possiamo aggiungere un' osservazione la quale, benché accessoria, aiuterà senza dubbio a comprendere ciò che principalmente abbiamo in vista. All' uomo ordinario, la cui coscienza è in qualche modo «sveglia» unicamente nella modalità corporea, tutto ciò che più o meno oscuramente viene percepito delle modalità sottili, appare come incluso nel corpo, perché questa percezione corrisponde solo al rapporto che quelle hanno con questo, piuttosto che a ciò che sono in se stesse; in realtà, le modalità sottili non possono essere contenute nel corpo e venir condizionate dai suoi limiti, anzitutto perché è proprio in esse che si trova il principio immediato della modalità corporea, e poi perché esse sono suscettibili d' una estensione incomparabilmente maggiore, per la natura stessa delle possibilità che comportano. Queste modalità, inoltre, se effettivamente sviluppate, appaiono come «prolungamenti» estendentisi in ogni senso al di là della modalità corporea, cosicché questa viene interamente a trovarsi, per così dire, «avvolta» da esse; sotto questo aspetto, per chi abbia realizzato l' individualità integrale, avviene una specie di «rivolgimento », se così ci si può esprimere, rispetto al punto di vista dell' uomo ordinario. In questo caso, del resto, le limitazioni individuali non sono ancora superate, ed è per ciò che all' inizio parlammo d' una possibile applicazione a diversi livelli; fin d' ora però si potrà comprendere, per analogia, che un «rivolgimento» si opera ugualmente, in un altro piano, quando l' essere sia passato alla realizzazione sopra-individuale. Fin quando l' essere non raggiungeva Atma, altro che nei suoi rapporti con l' individualità, cioè come jivatma, questo gli appariva come incluso nell' individualità e non poteva di certo apparirgli altrimenti poiché era incapace di oltrepassare i limiti della condizione individuale; ma quando egli raggiunge Atma direttamente ed in sé stesso, l' individualità, e con essa tutti gli altri stati individuali e sopra-individuali, gli appaiono invece compresi in Atma, com' è effettivament,e dal punto di vista della realtà assoluta, poiché essi non sono nient' altro che le possibilità stesse di Atma, al di fuori del quale niente può avere un grado qualsiasi di realtà.

Abbiamo così precisato i limiti entro i quali, da un punto di vista relativo, si può dire che lo spirito è contenuto sia
nell' individualità umana che nel corpo; e, inoltre, ne abbiamo indicato la ragione, ragione che in definitiva è inerente alla condizione stessa dell' essere per il quale questa prospettiva è legittima e valida. Ma non è tutto: bisogna ancora tener presente che lo spirito si considera situato non solo nell' individualità in generale, ma in un suo punto centrale, al quale corrisponde il cuore nell' ordine corporeo; ciò richiede altre spiegazioni, le quali permetteranno di conciliare i due punti di vista, apparentemente opposti, riferentisi rispettivamente, alla realtà relativa e contingente dell' individuo ed alla realtà assoluta di Atma. È facile rendersi conto che queste considerazioni devono basarsi essenzialmente su una applicazione del senso inverso dell' analogia, applicazione che nello stesso tempo dimostra, in modo particolarmente chiaro, le precauzioni che si richiedono nella trasposizione del simbolismo spaziale, in quanto, contrariamente a quello che avviene nell' ordine corporeo, cioè nello spazio inteso nel senso proprio e letterale, si può dire che nell' ordine spirituale è l' interno a comprendere l' esterno, ed il centro a contenere tutte le cose. Una delle migliori «illustrazioni» dell' applicazione del senso inverso, è data dalla rappresentazione dei diversi cieli, corrispondenti agli stati superiori dell'essere, mediante altrettante circonferenze o sfere concentriche come se ne ha un esempio in Dante. In una simile rappresentazione sembra a tutta prima che i cieli siano tanto più vasti, cioè meno limitati, quanto più sono elevati e quindi anche più «esteriori », nel senso che figurano più distanti dal centro, quest' ultimo essendo allora costituito dal mondo terrestre; è questo il punto di vista
dell' individualità umana, rappresentato precisamente dalla terra, punto di vista che corrisponde ad una verità relativa, la quale è tale nella misura in cui l' individualità è reale nel suo ordine, e per il fatto che bisogna necessariamente partire da
quest' ultima per passare agli stati superiori. Ma quando l' individualità venga superata e si operi il «rivolgimento» di cui abbiamo parlato (che in realtà è un « raddrizzamento» dell' essere), tutto l' insieme della rappresentazione simbolica viene ad essere in qualche modo rovesciato; è allora il cielo più elevato ad essere nello stesso tempo il più centrale, poiché in esso risiede il centro universale stesso; e, per contro, il mondo terrestre viene in questo modo a situarsi all' estrema periferia. In questo «rivolgimento» di posizione, bisogna inoltre osservare che il cerchio corrispondente al cielo più elevato deve tuttavia rimanere il più ampio e comprendere tutti gli altri (infatti, secondo la tradiziòne islamica, il «Trono» divino abbraccia tutti i mondi); e deve essere così perché, nella realtà assoluta, è il centro che contiene tutto.

L' impossibilità di raffigurare materialmente questo punto di vista, secondo cui il più vasto è nello stesso tempo il più centrale, non fa che esprimere le limitazioni alle quali il simbolismo geometrico è inevitabilmente sottoposto per il fatto stesso
d' essere il linguaggio della condizione spaziale, cioè di una delle condizioni proprie del nostro mondo corporeo, e quindi esclusivamente inerenti all' altro punto di vista, quello dell' individualità umana.

Per quanto riguarda il centro, si vede nettamente qui che, per il rapporto inverso esistente tra il centro effettivo (quello
dell' essere totale oppure dell' Universo, a seconda che si considerino le cose dal punto di vista «microcosmico» o «macrocosmico») e il centro dell' individualità o del suo particolare dominio d' esistenza, il primo, che è il più grande
nell' ordine della realtà principiale, diventa in certo qual modo (senza venir per nulla alterato o modificato in sé stesso) l' ultimo ed il più piccolo nell' ordine delle apparenze manifestate. Si tratta dunque, continuando a servirci del simbolismo spaziale, del rapporto esistente tra il punto geometrico e ciò che potremmo analogicamente chiamare il punto metafisico: quest' ultimo è il vero centro primordiale, che contiene in sé tutte le possibilità, ed è quindi quanto v' è di più grande; non è assolutamente «situato », poiché nulla lo può contenere o limitare, mentre sono tutte le cose a situarsi rispetto ad esso (va da sé che anche ciò deve intendersi simbolicamente, perché qui non si tratta unicamente delle possibilità spaziali). Il punto geometrico poi, che come tale è situato nello spazio, è evidentemente ciò che v' è di più piccolo anche in senso letterale perché privo di dimensioni, il che vuol dire che non occupa rigorosamente nessuna estensione; ma questo «niente» spaziale corrisponde direttamente al «tutto» metafisico, e questi, si potrebbe dire, sono i due aspetti estremi dell' indivisibilità considerata rispettivamente nel Principio e nella manifestazione. Per quel che riguarda le considerazioni circa il «primo» e l' «ultimo », è sufficiente aver presente, come abbiamo già spiegato, che il punto più alto ha il suo diretto riflesso nel punto più basso; ed a questo simbolismo spaziale si può aggiungere un simbolismo temporale, per il quale ciò che è primo nel dominio principiale, e quindi nel «non-tempo », appare come ultimo nello sviluppo della manifestazione.

Tutto ciò è facilmente applicabile a quanto abbiamo preso in considerazione all' inizio: in effetti è proprio lo spirito (Atma) il centro universale che contiene ogni cosa; ma esso, riflettendosi nella manifestazione umana, appare appunto per ciò come «localizzato» al centro dell' individualità e, più precisamente ancora, al centro della sua modalità corporea, poiché
quest' ultima, in quanto termine della manifestazione umana, ne è anche la modalità «centrale », ed è quindi appunto il suo centro, per quanto riguarda l' individualità, ad essere propriamente la rappresentazione ed il riflesso diretto del centro universale. Questo riflesso non è che un'apparenza, così come lo è la stessa manifestazione individuale; ma fintantoché
l' essere è limitato dalle condizioni individuali, questa apparenza è per lui la realtà e non può essere altrimenti, perché è esattamente dello stesso ordine della sua coscienza attuale. Solo quando l' essere ha superato questi limiti, l' altro punto di vista diventa per lui reale, cosi com' è (ed èsempre stato) in modo assoluto; il suo centro è allora nell' universale, e
l' individualità (ed a più forte ragione il corpo) non è più che una delle possibilità contenute in questo centro; per il «rivolgimento» che si è così effettuato, i veri rapporti tra tutte le cose si trovano ristabiliti, quali non hanno mai cessato
d' essere per l' essere principiale. Aggiungeremo che questo «rivolgimento» è in stretta relazione con il cosiddetto «spostamento delle luci» del simbolismo cabalistico, ed anche con la seguente espressione che la tradizione islamica attribuisce agli awliya: «I nostri corpi sono i nostri spiriti, ed i nostri spiriti sono i nostri corpi» (ajsamna arwahna, wa arwahna ajsamna), la quale, non solo indica che tutti gli elementi dell' essere sono completamente unificati nella «Identità Suprema», ma anche che il «nascosto,» è diventato l' «apparente» ed inversamente. Sempre secondo la tradizione islamica, l' essere che è passato dall' altra parte del barzakh è in qualche modo l' opposto degli esseri ordinari (e questa è ancora una stretta applicazione del senso inverso dell' analogia tra l' « Uomo Universale» e l' uomo individuale): «se cammina sulla sabbia, non lascia tracce; se cammina sulla roccia, i suoi piedi vi lasciano l' impronta [1].
Se è al sole, non proietta ombra; nell' oscurità, una luce emana da lui».



1- Ciò ha un evidente rapporto con il simbolismo delle «impronte di piedi» sulle rocce, che risale alle epoche «preistoriche» e che si ritrova in quasi tutte le tradizioni; senza abbordare considerazioni troppo complesse su questo soggetto, possiamo dire che, in generale, queste impronte rappresentano la «traccia» degli stati superiori nel nostro mondo.

martedì 23 luglio 2013

LE OPERAZIONI E LA TEURGIA DEGLI ELETTI COHEN (tratto da Il Martinismo e L'Ordine Martinista di F.Brunello)


LE OPERAZIONI E LA T EURGIA DEGLI ELETTI COHEN

Su questo assunto vi sono molti miti e vi sono molte incomprensioni dovute sia alla
ignoranza dei problemi posti, sia alla favola che esista una formula o qualche cosa di
simile di natura «magica» che permetta di ottenere mari e monti per mezzo del suo uso.
Questo atteggiamento che si ritrova dovunque, lo abbiamo sofferto nel passato e lo soffriamo
tutt'ora nell'ambito delle organizzazioni Martiniste. Lo stesso Martinez ne fu — sotto certi
aspetti — vittima.
Ed è appunto per sfrondare immediatamente il campo ai malintesi che occorre
affermare energicamente che il Martinismo in tutte le sue epoche di manifestazione ha
sempre proposto un piano di ascesa e di reintegrazione che dura tutta la vita e non soluzioni
mirifiche dai risultati completamente transitori o sperimentazioni magiche che lasciano si
e no un pallido ricordo di esse senza incidere in profondità nell'operatore.
Senza questa chiave le operazioni martineziste restano oscure ed incomprensibili,
comunque inaccessibili ed inutili ai candidati fruitori, i quali prendono il mezzo per il
fine, il supporto per la Via che mena allo scopo: la Reintegrazione, la quale non si
raggiunge con riti o cerimonie fini a se stesse, trasformandosi ipso fatto in episodi
carnevaleschi quando l'isterismo non determini manifestazioni che potrebbero definirsi
demoniache anche se i tapini le attribuiscono ai più grandi dei del loro mondo magico
ed allucinatorio.
Innanzi tutto Martinez, afferma che le operazioni alle quali si dedicano gli Eletti
Cohen sono assimilabili al vero culto del divino il cui fine ultimo è quello di produrre «i
frutti spirituali».
Vediamo dunque l'iter proposto dalla Dottrina segreta di Martinez.
1. La «riconciliazione» non può che essere lo stato preparatorio ed obbligatorio
della «rigenerazione», vale a dire la reintegrazione «nelle primitive proprietà,
virtù e potenze spirituali» di cui era in possesso Adamo.
2. La «riconciliazione» comincia qui sulla terra «nel cerchio sensibile» per terminare
dopo la morte, nel «cerchio intelletto».
3. Pervenuto al «cerchio razionale o maggiore», sede degli Spiriti Settenari, ha
termine il suo lavoro avendo conseguito lo stato iniziale dell'Adamo innocente,
ove attende la «fine dei tempi» in cui avverrà la reintegrazione nello stato
divino all'atto del riassorbimento finale dei mondi.
4. Nel corso di questo suo iter egli entra in contatto con «potenze spirituali»
sempre più elevate che gli confermano la validità del suo lavoro ed il suo
progredire mediante la loro manifestazione sensibile su questo piano
quaternario, i famosi «passi», specie di geroglifici luminosi apparenti
all'operatore.
5. Il contatto può avvenire con l'intervento di tre elementi che sono:
a. il consenso ed il concorso del Creatore;
b. l'intervento di uno Spirito Maggiore o intermedio;
c. l'azione esercitata dalla volontà dell'operatore sull'essere invocato. Come si vede
la «tecnica» andava molto al di là della semplice manualità in quanto,
perch'essa potesse dare dei frutti, occorreva quella famosa «polvere del
pirimpimpin» ben nota in magia.
L'azione esercitata dalla volontà dell'operatore richiedeva necessariamente certe
«virtù» dipendenti da queste tre condizioni:
a. dal suo stato di grazia;
b. da una facoltà soprannaturale che gli veniva conferita per mezzo della
iniziazione;
c. dalla cooperazione « simpatica » a distanza dei suoi eguali nella iniziazione.
«La precisione delle cerimonie — scriveva Martinez de Pasqually — non è da sola
sufficiente, necessita una esattezza ed una santità di vita all'adepto che vuole entrare in
relazione con gli Spiriti e gli necessita una preparazione spirituale fatta per mezzo della
preghiera, del ritiro e dell'attesa».
L'Eletto Cohen doveva osservare una regola di vita a carattere ascetico. I piaceri dei
sensi dovevano essere contenuti al massimo. L'alimentazione abituale richiedeva
l'abolizione del sangue, del grasso e delle interiora degli animali. L'uso dell'alcool era
assai limitato. Erano inoltre prescritti dei periodi di digiuno e di ritiro dalla vita profana
che dovevano essere scrupolosamente osservati.
Le tradizionali regole del «silenzio», della purificazione fisica e psichica, dei digiuni
periodici erano quindi strettamente prescritte ovviamente come supporti per il
raggiungimento di uno stato magico che trovava la sua massima espressione nel corso
delle operazioni, la riuscita delle quali — riassumendo — richiedeva:
a. purezza fisica e psichica;
b. possesso della ordinazione;
c. osservanza scrupolosa del rituale;
d. concorso del Maestro e dei pari in ordine;
e. influenza degli astri e dei numeri, calcolo del periodo astrologico favorevole;
f. l'intervento della Grazia divina.
Lo stesso Martinez dice «quand'anche noi ci troviamo nelle miglinori disposizioni,
quando tutte le cerimonie si svolgono con la più grande regolarità, la Chose può conservare il
suo velo per noi...».
Robert Ambelain (che fu il nostro Iniziatore nell'Ordine degli E.C.) così scriveva nel
suo libro Le Martinisme. «Lo scopo delle operazioni del culto è di consentire all'uomo
due cose:
a. all'uomo-individuo di reintegrarsi nell'Uomo-Archetipo;
b. all'Uomo-Archetipo, di riconquistare (una volta ricostituito) un Dominio da cui le
entità decadute lo avevano privato (facendolo decadere con sua propria
colpa) e di rientrare in possesso della sua "natura gloriosa" ».
Il paragrafo a) è correlativo di un regime materiale (purificazione dell'aura umana
materiale con l'astinenza da certi alimenti nella nutrizione troppo grossolani o animali)
e di un regime morale (purificazione dell'aura umana spirituale, con il rigetto di tali o
tal'altri difetti, lo sviluppo di certe qualità, conoscenze, la sparizione di abitudini nocive
ecc...).
Il paragrafo b) è correlativo di una lotta, di un realissimo combattimento iperfisico,
contro le Entità rivali, per mezzo delle Operazioni teurgiche.
Ora in un combattimento iperfisico di questo genere, come l'uomo potrebbe affidare
la cura di vegliare intorno ai suoi cerchi di protezione a delle entità extraumane che egli
giustamente mira a spodestare da questo «Dominio»?
Che cosa è precisamente questo Dominio? La Cabala, come la Sacra Scrittura lo
menziona: il Regno, in ebraico Malkuth.
...Il Regno o Malkuth è conosciuto dai cabalisti quale dominio proprio dell'uomo. In
esso si riflettono ciascuna delle altre sephirot o sfere... Dunque l'intero albero cabalistico
(immagine del famoso frutteto... del giardino dell'Eden e i due alberi quello della Vita
Eterna e quello della Scienza del Bene e del Male), quest'albero cabalistico deve avere il
suo riflesso microcosmico in Malkuth e così tutte le sfere metafisiche... che sfuggono
all'uomo. Il solo dominio che gli è aperto è Malkuth, piano che gli è proprio, dove lo
Spazio è identico alla sua Essenza, dove il Contenente è in pari tempo il contenuto, dove
si realizza allora la decisione divina che vuole che l'Uomo sia l'immagine di Dio...
In origine l'Uomo-Archetipo occupa, governa ed amministra Malkuth. Dopo la
caduta, Malkuth, oscurato ed ottenebrato in parte dalla prepotenza che vi hanno presa i
«Guardiani Ribelli», diventa allora la sua prigione, la sua ganga melmosa. Malkuth
ridiventerà il regno luminoso ed armonioso dove Adam-Kadmon regnerà nuovamente
(è la divisa «scozzese» assai conosciuta «Ordo ab Chao...»), per continuarvi il suo
compito eterno. In un caso come nell'altro, Malkuth resta la pietra, prima grezza, poi
sgrossata, poi levigata, l'unica Grande Opera Filosofale degna di un Adepto.
Ora se le potenze negative, avendo trionfato su Adamo, sono i Reggenti di Malkuth
durante la caduta di Adamo Kadmon, è equo ammettere che dopo la sua Reintegrazione
nella primitiva natura i Reggenti saranno dei riflessi microcosmici dell'Adamo Kadmon,
cioè le cellule costitutive più sublimate, più purificate dell'Uomo-Archetipo, cellule che
avranno preso il posto delle Potenze negative infine scacciate dal Regno...».
Si è fatta a parer nostro discreta confusione tra le istruzioni per le ordinazioni ai
diversi gradi dell'Ordine e le istruzioni per le operazioni, queste seconde tutte riservate
ai Reau+ ed ai Grandi Architetti.
A giustificare i confusionari diremo che le ordinazioni o iniziazioni erano anch'esse
chiamate «operazioni», in realtà solo quella dei REAU+ era una vera e propria
operazione magica.
Sotto questo aspetto diamone un elenco:
1. Operazioni di ordinazione.
1. Invocazione giornaliera o lavoro giornaliero dei Reau+.
2. Invocazione dei tre giorni (lunare).
3. Operazioni equinoziali e solstiziali. Le tecniche comportavano tre elementi
distinti:
a. gli esorcismi, destinati a stroncare l'azione demoniaca nel cosmo, ad ostacolare
la loro azione sugli uomini, a distruggere il loro potere sull'Operatore e i suoi
discepoli, ad ottenere la fine o la limitazione di certi flagelli, ad annullare le
operazioni di Magia Nera;
b. gli scongiuri, destinati a stabilire un contatto con il Mondo Angelico e con la
«Comunione dei Santi». Tra questi ultimi l'Operatore si sceglie dei «patroni»
particolari e, nel mondo Angelico dei Guardiani e delle Guide;
c. le preghiere, rivolte a Dio per ottenere la sua Grazia e la sua Misericordia, in
vista della Reintegrazione. Esse sono integrate nei rituali di scongiuro che
precedono e sono destinati a canalizzarle e ad amplificarle.
Accanto a ciò devesi porre la conoscenza dell'Astrologia e la sua pratica per i
necessari calcoli delle posizioni degli astri, la conoscenza delle analogie e delle sue
pratiche applicazioni in ordine a strumenti, colori, vesti ecc..., le tecniche per la
costruzione dei cerchi operatori i cui elementi variano in rapporto allo scopo delle
operazioni, ai tempi, ed ai supporti impiegati.
Il Culto Divino — quello segreto rivelato da Martinez — secondo la suddivisione del
Le Forestier, ripresa dall'Ambelain ed ormai classica, poteva suddividersi in dieci parti,
che sono, seguendo Ambelain (Alchimia Spirituale), le seguenti:
1. Culto di espiazione. L'uomo manifesta il suo pentimento, tanto delle proprie
colpe, quanto della caduta del prototipo iniziale, l'Adamo Primo, corego del
coro delle Anime Preesistenti. Ne deriva una ascesi ed un rituale penitenziale
(Sephira: Malkuth).
2. Culto di grazia particolare generale. Operazioni che consistono nel sostituirsi
all'insieme dell’Umanità terrestre del momento, ed a farla partecipare ai frutti
dell'Operazione individuale (Sephira: Jesod).
3. Culto Operatorio contro i demoni. Autori della degradazione all'inizio dei tempi,
essi tendono a mantenere e ad aggregare il loro giogo su tutta l'Umanità.
Con degli esorcismi (le celebri operazioni Equinoziali) il Cohen li combatte e li
respinge fuori dell'aura terrestre (Sephira: Hod).
4. Culto di Prevaricazione e di Conservazione. E’ il seguito della precedente. Questa
operazione consiste nel combattere e nel punire i seguaci della magia nera e
della stregoneria e soprattutto nel punire gli spiriti decaduti che ne sono i
collaboratori (Sephira: Netzaa).
5. Culto contro la guerra. Se l'omicidio è il più grave dei crimini, l'omicidio
collettivo è evidentemente ancora più grave. Il Cohen lotta contro le Potenze
di odio tra le Nazioni e tenta di sviare la loro azione... (Sephira: Tiphereth).
6. Culto di opposizione ai nemici della legge divina. Operazione teurgica che ha per
scopo la lotta contro le azioni umane che tendono a diffondere l'ateismo, il
satanismo, il luciferismo, sotto le loro forme egualmente umane (Sephira:
Geburah).
7. Culto per ottenere la discesa dello Spirito Santo. Operazione che ha per scopo la
infusione dello Spirito Santo e dei suoi doni (Sephira: Hesed).
8. Culto di rafforzamento della Fede e della Perseveranza nella virtù spirituale e divina.
Operazione che ha per scopo la comprensione dei Misteri Divini, comprensione
che permette all'emulo di rafforzare la sua fede in modo assoluto e definitivo
(Sephira Binah).
9. Culto per fissare in se lo Spirito Riconciliatore divino. È la accoglienza totale dello
Spirito Santo, la discesa delle «lingue di fuoco» della Pentecoste,
l'illuminazione finale, con i privilegi che essa comporta (Sephira Hochma).
10.Culto di dedica annuale di tutte le Operazioni al Creatore. Questa parte comprende
l'insieme delle consacrazioni, delle benedizioni eccetera...».
Fin qui Robert Ambelain. Tuttavia, a nostro giudizio, non ci sentiamo di sottoscrivere
globalmente il commento a questa suddivisione. Che Martinez abbia ricreato un «culto»
con caratteri particolari è una verità che traspare dalle sue istruzioni segrete e dalla sua
«Reintegrazione», ma la stessa ordinazione di REAU+ con il sacrificio cruento
dell'agnello ci sembra assai lontana (anche se magicamente corretta) da una
interpretazione moralistica ed assai... cristiana. Ma Ambelain scriveva nell'epoca —
assai breve — delle sue riscoperte cristiane.
La verità è che i «culti» elencati si intersecano variabilmente tra di loro come
vedremo in breve.
Abbiamo accennato che solo i Grandi Architetti o Grandi Maestri Cohen o
Apprendisti Reau+ (terz'ultimo grado della scala) in un certo qual senso eseguivano
delle operazioni preparatorie a quelle riservate esclusivamente ai REAU+ (ultimo grado
della scala). Essi infatti avevano i poteri e le funzioni degli esorcisti. Si legge che
«operano il mercoledì ed il sabato di ciascuna settimana, tutti i mesi dell'anno ed in tutte le
circostanze pericolose quando il caso lo richiede» «imponendo le loro mani a squadra su tutte le
cose che sono oggetto delle loro operazioni» cioè esorcizzando oggetti o persone per mezzo
della imposizione delle mani. Inoltre essi sono tenuti a servire il loro Potentissimo
Maestro «sei giorni per i due equinozi, dodici giorni per i due solstizi, quattordici giorni per la
perfetta operazione dei due equinozi, quattordici giorni per quelle dei due solstizi». I Grandi
Architetti quindi lavoravano alle operazioni equinoziali e solstiziali solo nella fase
preparatoria sapendo combattere gli spiriti perversi, ma nulla conoscendo dell'arte di
chiamare quelli positivi, «perché non sono altro che degli esseri temporali (prigionieri cioè
del quaternario) e non potranno ottenere la potenza necessaria se non divenendo esseri
spirituali». Era per questo richiesto uno stage di sette anni.
Le operazioni dei REAU+, oltre quella di ordinazione erano:
1. La invocazione giornaliera che consisteva:
a) tracciamento del cerchio con al centro la W ed un geroglifico di un protettore;
b) accensione del cero della presenza che si poneva sopra la W;
c) invocazione al proprio « angelo ».
2. Operazione (lunare) o dei tre giorni. Nel primo quarto della luna crescente:
d) tracciamento del cerchio con la W e dei segni di «geni» positivi (a scelta
dell'operatore);
e) incensamento del cerchio con la seguente miscela di profumi: zafferano,
incenso maschio, fiori di zolfo, grani di papavero bianco e nero. chiodi di garofano,
cannella bianca in bastoni, lacrime di mastice, di sandracea, di noce moscata;
f) accensione del cero di presenza e messa in situ;
g) invocazioni e scongiuri.
3. Operazioni equinoziali e solstiziali (I° tipo).
a. Preparazione:
1. Regime alimentare ecc... come già detto. L'operazione veniva
ripetuta per tre sere consecutive con la sola variante
dell'orientamento del pentacolo di difesa.
2. Tutte le mattine recita dell'Ufficio dello Spirito Santo.
3. Inizio ore 22.
4. Preambolo: recita dei sette salmi penitenziali e delle litanie.
5. Tracciamento del cerchio operatorio ad est (a quarto di cer chio in
quanto le operazioni venivano eseguite in gruppi di quattro
contemporaneamente). Tracciamento del cerchio di ritirata ad ovest.
6. Piazzamento di 8 candele.
7. A mezzanotte:
· Assunzione della posizione del «morto vivente» (allungato a terra
ed avambracci incrociati tra di loro, per sorreggere la fronte) per 6
minuti.
· Accensione del «fuoco» e delle candele.
· Assunzione della posizione in ginocchio nel «cerchio di ritirata».
· Pronuncia dei nomi sacri scritti nei cerchi operatori.
· Richiesta di grazia.
· Richiesta del segno o del «passo». Fumigazioni ed incensamento.
Estinzione delle luci salvo una.
· Recita delle invocazioni.
· Attesa del segno sino alle due e mezzo del mattino.
8. Cancellazione dei cerchi e dei geroglifici accompagnate da
invocazioni e scongiuri.
4. Operazioni equinoziali e solstiziali (II° tipo).
a. Come al N. 3;
b. come al N. 3 b/1, b/2;
c. recita dello scongiuro del Mezzogiorno ripetuto 4 volte per Satana,
Belzebuth, Baran e Leviatan;
d. invocazione speciale;
e. invocazione dei tre giorni (il terzo giorno veniva al suo posto detto «Il
Grande Scongiuro del Serpente»;
f. tracciamento del cerchio operatorio composto di un quarto di cerchio
all'angolo Est contenente il Grande Cerchio di Comunicazione; del Cerchio di
ritirata all'angolo Ovest e di sette piccoli cerchi. Nei cerchi si scrivevano i
nomi divini, delle potenze planetarie, dei geni protettori ecc...;
g. piazzamento di nove candele;
h. recita dei sette salmi di David;
i. sette prosternazioni ed accensione delle candele;
j. accensione dei profumi ed incensamenti (28 volte);
k. spegnimento delle candele dei cerchi piccoli e pronuncia dei nomi
rispettivi;
l. piazzamento nel cerchio di comunicazione ed invocazione dei quattro
rettori delle regioni celesti;
m. invocazione;
n. piazzamento nel Cerchio di ritirata ed osservazione dei passi n;
o. cancellazione di ogni segno, invocazioni, scongiuri ed abbandono del
luogo operatorio.
Queste — salvo alcune varianti — le operazioni teurgiche dei Cohen o meglio
dei Reau+. Ovviamente qui abbiamo dato semplicemente una traccia e
praticamente abbiamo taciuto tutti i dettagli poiché la struttura delle presenti note
esula dalla operatività Cohen in senso estensivo.
Aggiungeremo solo che il piano operatorio (i cerchi operatori cioè) erano per
quest'ultimo tipo di operazioni, lo schema dell'universo immateriale ove il teurgo si
accingeva ad entrare per mezzo della sua aspirazione, delle sue preghiere e della sua
preparazione rituale. La comparsa dei «passi», al termine del lavoro teurgico
rappresentava la manifestazione della presenza della «potenza» con la quale il
mondo «spirituale» rispondeva al celebrante.
Ci è giocoforza, a questo punto, sottolineare ancora una volta che il Cristo di
Martinez ed il suo cristianesimo non erano che una vernice atta a rendere accettabile la
sua dottrina segreta nell'ambiente massonico in cui svolgeva il suo servizio.
Il Cristo di Martinez, non ha niente a che vedere con il Cristo dei cristiani,
perché in realtà è UNO DEI NUMEROSI AVATAR DEL RICONCILIATORE, Spirito
emanato a diverse riprese dal cerchio della Divinità che per compiere la sua missione
ogni volta animava un corpo di materia apparente. La prova evidente di ciò, la prova
che con la parola Cristo Martinez intendeva il Riconciliatore (qualunque abito esso
avesse vestito o vestisse in futuro) e non il Gesù storico, si ha nel fatto ch'esso fa
parte di una schiera di eguali, di Uomini-Dio, che comincia con Enoc ed include Noè,
Melkisedek, Giuseppe, Mosè, David, Salomone, Zorobabele.
Una lampante dimostrazione dell'essere il cristianesimo di Martinez una vernice, ci
viene dal fatto che operativamente ai nomi dei Geni e degli Angeli della tradizione
magica, sostituisce quelli dei Patriarchi, degli Apostoli, dei Santi e dei soli Angeli
ammessi dalla Chiesa, per esempio il Quaternario vede al posto dei 4 angeli i 4
evangelisti, il settenario vede al posto dei sette pianeti con i rispettivi angeli i sette
vescovi delle sette chiese della Apocalisse, i geni delle dodici costellazioni sono
sostituiti dai dodici Apostoli e perfino i 360 geni dei giorni solari sono sostituiti da
365 santi e così via...

lunedì 22 luglio 2013

Lex Aurea 48



E' disponibile il nuvo numero della rivista digitale Lex Aurea. L'indirizzo internet dove potete trovarla, gratuitamente ed in formato pdf, è il seguente:

link della pagine con i vari numeri: http://www.fuocosacro.com/pagine/lexaurea/lexaurea.htm
link diretto: http://www.fuocosacro.com/pagine/lexaurea/lexaurea48.pdf

Rubriche:

La Cattedrale Gotica p.2.
Il Mito Gnostico
Mundus Imanginalis
Il Centro Vacuo della Contemporaneità
Lo Zodiaco Alchemico p.4
Perseo e Medusa
Sulla Massoneria
La Purificazione
La Narrazione Mitologica
La Pietra Eraclea in Aion di C.G.Jung


Approfondimenti e Contributi

Catechismo della Stella Fiammeggiante
Appunti sull’Operatività Muratoria

per informazioni o collaborazioni:

lexaurea@fuocosacro.com
fuocosacroinforma@fuocosacro.com

domenica 21 luglio 2013

Meditazione sul Martinismo e sui Doveri dei Martinisti - Sette S.I.I.



MEDITAZIONE SUL MARTINISMO E SUI DOVERI DEI MARTINISTI
SETTE S:: I:: I::

È questa una meditazione sui valori intrinseci del Martinismo e sulle possibilità che
ogni appartenente all'Ordine ha davanti a sé nella traduzione pratica di una dinamica che,
originata, come tutto, dall'UNO, ci giunge attraverso e per mezzo di... « ogni Tradizione
» come dice l'art. 2 degli statuti, o meglio della TRADIZIONE, perché essa quando è
vera non può che essere una, riallacciandosi necessariamente alla Fonte Primordiale
matrice del divenire.
Sempre l'art. 2 precisa che l'Ordine non pone limiti alla ricerca, né fa distinzione di razza,
di fede religiosa o di ideali sociali. Sono questi i punti che distinguono in modo
inconfondibile il Martinismo da molti altri Ordini Iniziatici! Il Martinismo è un sistema
aperto, e come tale possiede, a differenza di altri Ordini, una dinamica cronotipica che pur
mantenendo il costante necessario collegamento con la Fonte Primordiale, vive e reagisce
in funzione delle variabili spazio-temporali; emanazioni dualistiche dell'Unità Primordiale.
Questa precipua caratteristica che trova conferma nel poliedrico valore radicale dei
Maestri Passati la pone in una posizione unica almeno rispetto al mondo occidentale.
In un mondo rimasto ancorato per la maggior parte al passato, o proiettato in un
futuro completamente squilibrato e disarmonico, perché partorito da principi generati da
una reazione al passato e incuranti dei nuovi vettori spazio- temporali che cominciano a
pesare sui piatti della bilancia terrestre, il Martinismo ha in sé tutte le possibilità per agire
quale forza catalizzatrice che permetta alle nuove potenzialità di inserirsi nella dinamica
umana e terrestre.
Da tempo, e da più parti ormai, si sente ripetere come il suono di una campana che
accelera sempre più il ritmo dei suoi rintocchi, che i nuovi tempi stanno sopraggiungendo
e con essi la necessità per l'uomo di acquisire nuovi stati di coscienza. L'umanità è giunta
ad un giro di boa, si dice da alcuni; l'era dell'Acquario sta iniziando, ripetono altri; un nuovo
ciclo cosmico avanza a passi serrati, insistono altri ancora; ma ognuna di queste fonti,
incatenata ai suoi schemi dottrinari, lo dice, lo ripete, magari lo urla, per affermare che solo
poco tempo è rimasto, a chi vuol veramente salvarsi, per abbracciare incondizionatamente
quella dottrina. Così la percezione di una verità, che come tale dovrebbe amalgamare, non fa che
frazionade sempre più, incrementando lo sviluppo di una nuova Torre di Babele già in
atto. Il Martinismo in forza della sua essenza, collegato per mezzo della energia sempre
vitale e presente in esso trasfusa dai Maestri Passati che si rinnova, si potenzia e si
trasfonde in noi tutti grazie alla dinamica vorticosa della ritualità, può essere veramente
depositario della Tradizione una e vera congiungentesi alla Fonte Primordiale. Ecco, il
Martinismo grazie a questa sua superiore qualità, libero come è da catene dottrinarie
unidirezionali, ha in sé le caratteristiche per ben comprendere ed assimilare questi nuovi
vettori di forze che stanno cominciando ad avvolgere questa nostra terra. Trovandosi in
tali condizioni, può attuare un'azione sia sui piani sottili che su quelli concreti per
portare il suo valido contributo alla creazione di una equilibrata comprensione di una
nuova realtà fra tutti coloro che divisi da apparenti superficialità dottrinarie, sono diretti
verso un medesimo raggiungimento. Ed in ciò vedo un rinnovato dovere di ogni
Martinista, il dovere di aiutare ogni creatura umana verso la comprensione di quel principio
che dovrà un giorno essere l'unica vera forza che tutti accomuna e tutti comprende:
l'AMORE UNIVERSALE. Ogni qual volta una creatura riuscirà veramente ad
identificarsi nel suo prossimo, una parte della immensa differenziazione che fa esistere il
dualismo sarà stata assorbita; due scintille un tempo esplose da un unico globo di Luce si
saranno riunite, sospinte dalla loro stessa forza originaria a rientrare nella Grande Fiamma
d'Amore che dovrà un giorno ardere in un unico fuoco il dualismo tutto.
Questo impulso formidabile fu un giorno già donato all'umanità e con esso fu data la
Pace, ma essa non è stata compresa. Il Nuovo Stato di Coscienza nel quale l'umanità tutta è
sospinta dalle nuove forze spazio-temporali che hanno, per ora blandamente, cominciato
ad investire il nostro pianeta, porta con sé qualcosa che integra e completa all'umanità era
stato già dato. Tale realtà ancora intangibile per i più, è senza dubbio il grande evento cosmico che
innalzerà l'umanità lungo la spirale del suo cammino evolutivo. Si tratta di forze di ordine
spirituale che, come tali, incideranno sullo stesso piano per gli uomini, ma sono forze
nuove e poderose alle cui armonie i più sono ancora sordi, perché rimasti ancorati a
principi che sono serviti ad una esperienza ormai conclusa, nell'economia spazio-temporale
cosmica. Perché tutto ciò possa compiersi secondo quell'Armonia che regge e governa il tutto, il
nostro sistema planetario sta entrando in zone cosmiche di adatte vibrazioni generanti.
Questo incontro, si convertirà in un primo momento, per i più, in un vero e proprio
scontro di potenzialità energetiche contrastanti; ed i primi sintomi già si palesano
nell'uomo e nella natura. È quindi di somma importanza che si creino dei canali psicospirituali
che, consci di tale realtà, si adoperino a far defluire, se così si può dire, queste
nuove energie verso la moltitudine impreparata attraverso un mezzo trasduttore con essa
risuonante. Il Martinismo, e per esso ogni Martinista, può e deve adoperarsi con tutte le forze per
creare quei canali di cui parlavo prima, giungendo così in breve tempo al
coordinamento psico-spirituale di tutti gli altri « centri di buona volontà per la nuova era
» che in tutto il mondo cercano di sbocciare; perché, anche se sparuti, esistono esseri che
hanno già avuto la percezione netta di tale necessità. Gli Alti Centri Occulti già lavorano in
tale senso, ma la collaborazione deve essere data da ogni uomo di desiderio e di buona
volontà, affinché, nettati gli spiriti dai preconcetti e dai tarpami che li invischiano e li
legano, un bocciuolo di rosa possa germogliare al centro della croce della umanità.
Allora all'Amore ed alla Pace verrà aggiunta la Gioia!

(tratto dal Martinismo e l'Ordine Martinista)

giovedì 18 luglio 2013

Se vuoi regnare su te stesso e sugli altri, impara a volere



"Se vuoi regnare su te stesso e sugli altri, impara a volere... Come possiamo imparare a volere? Particolari apparentemente insignificanti, e in se stessi insignificanti al fine voluto, conducono nonostrante tutto a questo fine mediante l'affinamento e l'esercizio della volontà... L'uomo può essere trasformato fino ad assumere una seconda natura. Con la perseveranza e graduali esercizi atletici, le energie e l'agilità del corpo si sviluppano o si creano ad un livello sorprendente. Lo stesso avviene con i poteri dell'anima."


Eliphas Levi


Il martinismo è un perimetro operativo, simbolico, e rituale. L'operatore che si pone in esso non può pretendere di operare in virtù della semplice ripetizione di gesti, suoni, ed operazioni, bensì in virtù della propria capacità di vivificare questi strumenti, ed attingere dalla vitale coscienza suprema che li ispira. Così dobbiamo studiare per alimentare la nostra mente, così dobbiamo meditare per  ampliare e rettificare le nostre conoscenze, così dobbiamo raccogliere le energie ed evitare la loro dispersione. Non vi può essere reale opera che non sia quella che ha una visione integrale dell'individuo.

Giordano Bruno - Cabala del Cavallo Pegaseo




Giordano Bruno
Cabala del Cavallo Pegaseo
Edizione Acrobat
a cura di
Patrizio Sanasi
(www.bibliomania.it)
SI RINGRAZIA IL DOTT. STEFANO ULLIANA (ulliana@qnet.it)
PER AVER FORNITO I TESTI
2
CABALA DEL CAVALLO PEGASEO. EPISTOLA DEDICATORIA SOPRA LA SEGUENTE CABALA AL REVERENDISSIMO SIGNOR DON SAPATINO,
abbate successor di San Quintino e vescovo di Casamarciano.
Reverendissime in Christo Pater,
Non altrimente che accader suole a un figolo, il qual gionto al termine del suo lavoro
(che non tanto per trasmigrazion de la luce, quanto per difetto e mancamento della materia
spacciata è gionto al fine) e tenendo in mano un poco di vetro, o di legno, o di cera, o altro
che non è sufficiente per farne un vase, rimane un pezzo senza sapersi né potersi risolvere,
pensoso di quel che n'abbia fare, non avendolo a gittar via disutilmente, e volendo al
dispetto del mondo che serva a qualche cosa; ecco che a l'ultimo il mostra predestinato ad
essere una terza manica, un orlo, un coperchio di fiasco, una forzaglia, un empiastro, o una
intacconata, che risalde, empia o ricuopra qualche fessura pertuggio o crepatura; è avvenuto
a me, dopo aver dato spaccio non a tutti miei pensieri, ma a un certo fascio de scritture
solamente, che al fine, non avendo altro da ispedire, più per caso che per consiglio, ho volti
gli occhi ad un cartaccio che avevo altre volte spreggiato e messo per copertura di que'
scritti: trovai che conteneva in parte quel tanto che vi vederete presentato.
Questo prima pensai di donarlo a un cavalliero; il quale avendovi aperti gli occhi, disse
che non avea tanto studiato che potesse intendere gli misterii, e per tanto non gli possea
piacere. L'offersi appresso ad un di questi ministri verbi Dei; e disse che era amico della
lettera, e che non si delettava de simili esposizioni proprie a Origene, accettate da scolastici
ed altri nemici della lor professione. Il misi avanti ad una dama; e disse che non gli
aggradava per non esser tanto grande quanto conviene al suggetto d'un cavallo ed un asino.
Il presentai ad un'altra; la quale, quantunque gustandolo gli piacesse, avendolo gustato, disse
che ci volea pensar su per qualche giorno. Viddi se vi potesse accoraggiar una pizocchera; e
la me disse: Non lo accetto, se parla d'altro che di rosario, della vertù de granelli benedetti e
de l'agnusdei.
3
Accostailo al naso d'un pedante, il qual, avendo torciuto il viso in altra parte, mi disse
che aboliva ogni altro studio e materia eccetto che qualche annotazione, scolia ed
interpretazione sopra Vergilio, Terenzio e Marco Tullio. Udivi da un versificante che non lo
volea, se non era qualche copia d'ottave rime o de sonetti. Altri dicevano che gli meglior
trattati erano stati dedicati a persone che non erano megliori che essi loro. Altri co' l'altre
raggioni mi parevan disposti a dovermene ringraziar o poco o niente, se io gli l'avesse
dedicato; e questo non senza caggione, perché, a dir il vero, ogni trattato e considerazione
deve essere speso, dispensato e messo avanti a quel tale che è de la suggetta professione o
grado.
Stando dunque io con gli occhi affissi su la raggion della materia enciclopedica, mi
ricordai dell'enciclopedico vostro ingegno, il qual non tanto per fecondità e ricchezza par
che abbraccie il tutto, quanto per certa pelegrina eccellenza par ch'abbia il tutto e meglio
ch'il tutto. Certo nessun potrà più espressamente che voi comprendere il tutto, perché siete
fuor del tutto; possete entrar per tutto, perché non è cosa che vi tegna rinchiuso; possete aver
il tutto, perché non è cosa che abbiate. (Non so se mi dechiararò meglio co' descrivere il
vostro ineffabile intelletto). Io non so se siete teologo, o filosofo, o cabalista; ma so ben che
siete tutti, se non per essenza, per partecipazione; se non in atto, in potenza; se non
d'appresso, da lontano. In ogni modo credo che siate cossì sufficiente nell'uno come
nell'altro. E però eccovi cabala, teologia e filosofia: dico una cabala di teologica filosofia,
una filosofia di teologia cabalistica, una teologia di cabala filosofica, di sorte ancora che non
so se queste tre cose avete o come tutto, o come parte, o come niente; ma questo so ben
certo che avete tutto del niente in parte, parte del tutto nel niente, niente de la parte in tutto.
Or per venire a noi, mi dimandarete: che cosa è questa che m'inviate? quale è il
suggetto di questo libro? di che presente m'avete fatto degno? Ed io vi rispondo, che vi
porgo il dono d'un Asino, vi si presenta l'Asino il quale vi farà onore, vi aumentarà dignità,
vi metterà nel libro de l'eternità. Non vi costa niente per ottenerlo da me ed averlo per
vostro; non vi costarà altro per mantenerlo, perché non mangia, non beve, non imbratta la
casa; e sarà eternamente vostro, e duraràvi più che la vostra mitra, croccia, piovale, mula e
vita; come, senza molto discorrere, possete voi medesimo ed altri comprendere. Qua non
dubito, reverendissimo monsignor mio, che il dono de l'asino non sarà ingrato alla vostra
prudenza e pietà: e questo non dico per caggione che deriva dalla consuetudine di presentar
a gran maestri non solamente una gemma, un diamante, un rubino, una perla, un cavallo
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perfetto, un vase eccellente; ma ancora una scimia, un papagallo, un gattomammone, un
asino; e questo, allora che è necessario, è raro, è dottrinale; e non è de gli ordinarii. L'asino
indico è precioso e duono papale in Roma; l'asino d'Otranto è duono imperiale in
Costantinopoli; l'asino di Sardegna è duono regale in Napoli; e l'asino cabalistico, il qual è
ideale e per consequenza celeste, volete voi che debba esser men caro in qualsivoglia parte
de la terra a qualsivoglia principal personaggio che per certa benigna ed alta repromissione
sappiamo che si trova in cielo il terrestre? Son certo dunque che verrà accettato da voi con
quell'animo, con quale da me vi vien donato.
Prendetelo, o padre, se vi piace, per ucello, perché è alato ed il più gentil e gaio che si
possa tener in gabbia. Prendetelo, se 'l volete, per fiera, perché è unico, raro e pelegrino da
un canto, e non è cosa più brava che possiate tener ferma in un antro o caverna. Trattatelo,
se vi piace, come domestico; perché è ossequioso, comite e servile, ed è il meglior
compagno che possiate aver in casa. Vedete che non vi scampe di mano; perché è il meglior
destriero che possiate pascere, o, per dir meglio, vi possa pascere in stalla; meglior familiare
che vi possa esser contubernale e trattenimento in camera. Maneggiatelo come una gioia e
cosa preciosa; perché non possete aver tesoro più eccellente nel vostro ripostiglio. Toccatelo
come cosa sacra, e miratelo come cosa da gran considerazione; perché non possete aver
meglior libro, meglior imagine e meglior specchio nel vostro cabinetto. Tandem, se per tutte
queste raggioni non fa per il vostro stomaco, lo potrete donar ad alcun altro che non ve ne
debba essere ingrato. Se l'avete per cosa ludicra, donatelo ad qualche buon cavalliero,
perché lo metta in mano de suoi paggi, per tenerlo caro tra le scimie e cercopitechi. Se lo
passate per cosa armentale, ad un contadino che li done ricetto tra il suo cavallo e bue. Se 'l
stimate cosa ferina, concedetelo a qualche Atteone che lo faccia vagar con gli capri e gli
cervi. Se vi par ch'abbia del mignone, fatene copia a qualche damigella che lo tegna in luogo
di martora e cagnuola. Se finalmente vi par ch'abbia del matematico, fatene grazia ad un
cosmografo, perché gli vada rependo e salticchiando tra il polo artico ed antartico de una di
queste sfere armillari, alle quali non men comodamente potrà dar il moto continuo, ch'abbia
possuto donar l'infuso mercurio a quella d'Archimede, ad esser più efficacemente tipo del
megacosmo, in cui da l'anima intrinseca pende la concordanza ed armonia del moto retto e
circolare.
Ma se siete, come vi stimo, sapiente, e con maturo giudicio considerate, lo terrete per
voi, non stimando a voi presentata da me cosa men degna, che abbia possuto presentar a
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papa Pio quinto, a cui consecrai l'Arca di Noè; al re Errico terzo di Francia, il quale
immortaleggio con l'Ombre de le Idee; al suo legato in Inghilterra, a cui ho conceduti Trenta
sigilli; al cavallier Sidneo, al quale ho dedicata la Bestia trionfante. Perché qua avete non
solamente la bestia trionfante viva; ma, ed oltre, gli trenta sigilli aperti, la beatitudine
perfetta, le ombre chiarite e l'arca governata; dove l'asino (che non invidia alla vita delle
ruote del tempo, all'ampiezza de l'universo, alla felicità de l'intelligenze, alla luce del sole, al
baldachino di Giove) è moderatore, dechiaratore, consolatore, aperitore e presidente. Non è,
non è asino da stalla o da armento, ma di que' che possono comparir per tutto, andar per
tutto, entrar per tutto, seder per tutto, comunicar, capir, consegliar, definir e far tutto. Atteso
che se lo veggio zappar, inaffiar ed inacquare, perché non volete ch'il dica ortolano? S'ei
solca, pianta e semina, perché non sarà agricoltore? Per qual caggione non sarà fabro, s'ei è
manipolo, mastro ed architettore? Chi m'impedisce che non lo dica artista, se è tanto
inventivo, attivo e reparativo? Se è tanto esquisito argumentore, dissertore ed apologetico,
perché non vi piacerà che lo dica scolastico? Essendo tanto eccellente formator di costumi,
institutor di dottrine e riformator de religioni, chi si farà scrupolo de dirlo academico, e
stimarlo archimandrita di qualche archididascalia? Perché non sarà monastico, stante ch'egli
sia corale, capitolare e dormitoriale? S'egli è per voto povero, casto ed ubediente, mi
biasimarete se lo dirò conventuale? Mi impedirete voi che non possa chiamarlo
conclavistico, stante ch'egli sia per voce attiva e passiva graduabile, eligibile, prelatibile? Se
è dottor sottile, irrefragabile ed illuminato, con qual conscienza non vorrete che lo stime e
tegna per degno consegliero? Mi terrete voi la lingua, perché non possa bandirlo per
domestico, essendo che in quel capo sia piantata tutta la moralità politica ed economica?
Potrà far la potenza de canonica autoritade ch'io non lo tegna ecclesiastica colonna, se mi si
mostra di tal maniera pio, devoto e continente? Se lo veggo tanto alto, beato e trionfante,
potrà far il cielo e mondo tutto che non lo nomine divino, olimpico, celeste? In conclusione
(per non più rompere il capo a me ed a voi) mi par che sia l'istessa anima del mondo, tutto in
tutto, e tutto in qualsivoglia parte. Or vedete, dunque, quale e quanta sia la importanza di
questo venerabile suggetto, circa il quale noi facciamo il presente discorso e dialogi: nelli
quali se vi par vedere un gran capo o senza busto o con una picciola coda, non vi
sgomentate, non vi sdegnate, non vi maravigliate; perché si trovano nella natura molte
specie d'animali che non hanno altri membri che testa, o par che siano tutto testa, avendo
questa cossì grande e l'altre parti come insensibili; e per ciò non manca che siano
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perfettissime nel suo geno. E se questa raggione non vi sodisfa, dovete considerar oltre, che
questa operetta contiene una descrizione, una pittura; e che ne gli ritratti suol bastar il più de
le volte d'aver ripresentata la testa sola senza il resto. Lascio che tal volta si mostra
eccellente artificio in far una sola mano, un piede, una gamba, un occhio, una svelta
orecchia, un mezo volto che si spicca da dietro un arbore, o dal cantoncello d'una fenestra, o
sta come sculpito al ventre d'una tazza, la qual abbia per base un piè d'oca, o d'aquila, o di
qualch'altro animale; non però si danna, né però si spreggia, ma più viene accettata ed
approvata la manifattura. Cossì mi persuado, anzi son certo, che voi accettarete questo dono
come cosa cossì perfetta, come con perfettissimo cuore vi vien offerta. Vale.
SONETTO
IN LODE DE L'ASINO.
O sant'asinità, sant'ignoranza,
Santa stolticia e pia divozione,
Qual sola puoi far l'anime sì buone,
Ch'uman ingegno e studio non l'avanza;
Non gionge faticosa vigilanza
D'arte qualunque sia, o 'nvenzione,
Né de sofossi contemplazione
Al ciel dove t'edifichi la stanza.
Che vi val, curiosi, il studiare,
Voler saper quel che fa la natura,
Se gli astri son pur terra, fuoco e mare?
La santa asinità di ciò non cura;
Ma con man gionte e 'n ginocchion vuol stare,
Aspettando da Dio la sua ventura.
Nessuna cosa dura,
Eccetto il frutto de l'eterna requie,
La qual ne done Dio dopo l'essequie.
DECLAMAZIONE
AL STUDIOSO, DEVOTO E PIO LETTORE.
Oimè, auditor mio, che senza focoso suspiro, lubrico pianto e tragica querela, con
l'affetto, con gli occhi e le raggioni non può rammentar il mio ingegno, intonar la voce e
dechiarar gli argumenti, quanto sia fallace il senso, turbido il pensiero ed imperito il
giudicio, che con atto di perversa, iniqua e pregiudiciosa sentenza non vede, non considera,
non definisce secondo il debito di natura, verità di raggione e diritto di giustizia circa la pura
bontade, regia sinceritade e magnifica maestade della santa ignoranza, dotta pecoragine e
divina asinitade! Lasso! a quanto gran torto da alcuni è sì fieramente essagitata
quest'eccellenza celeste tra gli uomini viventi, contra la quale altri con larghe narici si fan
censori, altri con aperte sanne si fan mordaci, altri con comici cachini si rendono
beffeggiatori. Mentre ovunque spreggiano, burlano e vilipendeno qualche cosa, non gli odi
dir altro che: Costui è un asino, quest'azione è asinesca, questa è una asinitade; - stante che
ciò absolutamente convegna dire dove son più maturi discorsi, più saldi proponimenti e più
trutinate sentenze. Lasso! perché con ramarico del mio core, cordoglio del spirito ed
aggravio de l'alma mi si presenta a gli occhi questa imperita, stolta e profana moltitudine
che sì falsamente pensa, sì mordacemente parla, sì temerariamente scrive per parturir que'
scelerati discorsi de tanti monumenti che vanno per le stampe, per le librarie, per tutto, oltre
gli espressi ludibrii, dispreggi e biasimi: l'asino d'oro, le lodi de l'asino, l'encomio de l'asino;
dove non si pensa altro che con ironiche sentenze prendere la gloriosa asinitade in gioco,
spasso e scherno? Or chi terrà il mondo che non pensi ch'io faccia il simile? Chi potrà donar
freno alle lingue che non mi mettano nel medesimo predicamento, come colui che corre
appo gli vestigii de gli altri che circa cotal suggetto democriteggiano? Chi potrà contenerli
che non credano, affermino e confermino che io non intendo vera e seriosamente lodar
l'asino ed asinitade, ma più tosto procuro di aggionger oglio a quella lucerna la quale è stata
da gli altri accesa? Ma, o miei protervi e temerarii giodici, o neghittosi e ribaldi calunniatori,
o foschi ed appassionati detrattori, fermate il passo, voltate gli occhi, prendete la mira;
vedete, penetrate, considerate se gli concetti semplici, le sentenze enunciative e gli discorsi
sillogistici ch'apporto in favor di questo sacro, impolluto e santo animale, son puri, veri e
demostrativi, o pur son finti, impossibili ed apparenti. Se le vedrete in effetto fondati su le
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basi de fondamenti fortissimi, se son belli, se son buoni, non le schivate, non le fuggite, non
le rigettate; ma accettatele, seguitele, abbracciatele, e non siate oltre legati dalla
consuetudine del credere, vinti dalla sufficienza del pensare e guidati dalla vanità del dire,
se altro vi mostra la luce de l'intelletto, altro la voce della dottrina intona ed altro l'atto de
l'esperienza conferma.
L'asino ideale e cabalistico, che ne vien proposto nel corpo de le sacre lettere, che
credete voi che sia? Che pensate voi essere il cavallo pegaseo che vien trattato in figura de
gli poetici figmenti? De l'asino cillenico degno d'esser messo in croceis nelle più onorate
academie che v'imaginate? Or lasciando il pensier del secondo e terzo da canto, e dando sul
campo del primo, platonico parimente e teologale, voglio che conosciate che non manca
testimonio dalle divine ed umane lettere, dettate da sacri e profani dottori, che parlano con
l'ombra de scienze e lume della fede. Saprà, dico, ch'io non mentisco colui ch'è anco
mediocremente perito in queste dottrine, quando avien ch'io dica l'asino ideale esser
principio prodottivo, formativo e perfettivo sopranaturalmente della specie asinina; la quale
quantunque nel capacissimo seno della natura si vede ed è dall'altre specie distinta, e nelle
menti seconde è messa in numero, e con diverso concetto appresa, e non quel medesimo con
cui l'altre forme s'apprendeno; nulla di meno (quel ch'importa tutto) nella prima mente è
medesima che la idea de la specie umana, medesima che la specie de la terra, della luna, del
sole, medesima che la specie dell'intelligenze, de gli demoni, de gli dei, de gli mondi, de
l'universo; anzi è quella specie da cui non solamente gli asini, ma e gli uomini e le stelle e
gli mondi e gli mondani animali tutti han dependenza: quella dico, nella quale non è
differenza di forma e suggetto, di cosa e cosa; ma è semplicissima ed una. Vedete, vedete
dunque, d'onde derive la caggione che senza biasimo alcuno il santo de santi or è nominato
non solamente leone, monocorno, rinoceronte, vento, tempesta, aquila, pellicano, ma e non
uomo, opprobrio de gli uomini, abiezion di plebe, pecora, agnello, verme, similitudine di
colpa, sin ad esser detto peccato e peggio. Considerate il principio della causa, per cui gli
cristiani e giudei non s'adirano, ma più tosto con glorioso trionfo si congratulano insieme,
quando con le metaforiche allusioni della santa scrittura son figurati per titoli e definizioni
asini, son appellati asini, son definiti per asini: di sorte che, dovunque si tratta di quel
benedetto animale, per moralità di lettera, allegoria di senso ed anagogia di proposito
s'intende l'uomo giusto, l'uomo santo, l'uomo de Dio.
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Però, quando ne l'Exodo si fa menzione della redenzione e mutazion dell'uomo, in
compagnia di quello vien fatta la menzion de l'asino. Il primogenito dell'asino dice,
cangiarai con la pecora; il primogenito dell'uomo redimerai col prezzo. Quando nel
medesimo libro è donata legge al desiderio dell'uomo che non si stenda alla moglie, alla
servente, vedi nel medesimo numero messo il bue e l'asino: come che non meno importe
proporsi materia di peccato l'uno che l'altro appetibile. Però quando nel libro de Giudici
cantò Debora e Barac, figlio d'Abinoen, dicendo: Udite, o regi, porgete l'orecchie, o
principi, li quali montate su gli asini nitenti e sedete in giudicio, interpretano gli santi rabini:
O governatori de la terra, li quali siete superiori a gli generosi popoli, e con la sacra sferza le
governate, castigando gli rei, premiando gli buoni e dispensando giustamente le cose. -
Quando ordina il Pentateuco che devi ridur ed addirizzar al suo camino l'asino e bue errante
del prossimo tuo, intendeno moralmente gli dottori, che l'uomo del nostro prossimo Idio, il
quale è dentro di noi ed in noi, s'aviene che prevariche dalla via della giustizia, debba essere
da noi corretto ed avertito. Quando l'archisinagogo riprese il Signor che curava nel sabbato,
ed egli rispose che non è uomo da bene che in qualunque giorno non vegna a cavar l'asino o
bue dal pozzo dove è cascato; intendeno gli divini scrittori che l'asino è l'uomo semplice, il
bue è l'uomo che sta sul naturale, il pozzo è il peccato mortale, quel che cava l'asino dal
pozzo è la divina grazia e ministero che redime gli suoi diletti da quell'abisso. Ecco, dunque,
qualmente il popolo redemuto, preggiato, bramato, governato, addirizzato, avertito, corretto,
liberato e finalmente predestinato, è significato per l'asino, è nominato asino. E che gli asini
son quelli per gli quali la divina benedizione e grazia piove sopra gli uomini, di maniera che
guai a color che vegnon privi del suo asino, certamente molto ben si può veder
nell'importanza di quella maledizione che impiomba nel Deuteronomio, quando minacciò
Dio dicendo: L'asino tuo ti sia tolto d'avanti, e non ti sia reso!
Maladetto il regno, sfortunata la republica, desolata la cità, desolata la casa, onde è
bandito, distolto ed allontanato l'asino! Guai al senso, conscienza ed anima dove non è
participazion d'asinità! Ed è pur trito adagio: ab asino excidere, per significar l'esser
destrutto, sfatto, spacciato. Origene Adamanzio, accettato tra gli ortodoxi e sacri dottori,
vuole che il frutto de la predicazione de' settanta doi discepoli è significato per li settanta doi
milia asini che il popolo israleita guadagnò contra gli Moabiti: atteso che de quei settanta
doi ciascuno guadagnò mille, cioè un numero perfetto, d'anime predestinate, traendole da le
mani de Moab, cioè liberandole dalla tirannia de Satan. Giongasi a questo che gli uomini
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più divoti e santi, amatori ed exequitori dell'antiqua e nova legge, absolutamente e per
particolar privilegio son stati chiamati asini. E se non me 'l credete, andate a studiar quel
ch'è scritto sopra quell'Evangelico: L'asina ed il pulledro sciogliete, e menateli a me. Andate
a contemplar su gli discorsi che fanno gli teologi ebrei, greci e latini sopra quel passo che è
scritto nel libro de Numeri: Aperuit Dominus os asinae, et locuta est. E vedete come
concordano tanti altri luoghi delle sacrate lettere, dove sovente è introdotto il providente Dio
aprir la bocca de diversi divini e profetici suggetti, come di quel che disse: Oh oh oh,
Signor, ch'io non so dire. E là dove dice: Aperse il Signor la sua bocca. Oltre tante volte ch'è
detto: Ego ero in ore tuo; tante volte che gli è priegato: Signor, apri le mie labra, e la mia
bocca ti lo darà. Oltre nel testamento novo: Li muti parlano, li poveri evangelizano.
Tutto è figurato per quello che il Signor aperse la bocca de l'asina, ed ella parlò. Per
l'autorità di questa, per la bocca, voce e paroli di questa è domata, vinta e calpestrata la
gonfia, superba e temeraria scienza secolare; ed è ispianata al basso ogni altezza che ardisce
di levar il capo verso il cielo: perché Dio av'elette le cose inferme per confondere le forze
del mondo; le cose stolte ave messe in riputazione; atteso che quello, che per la sapienza
non posseva essere restituito, per la santa stoltizia ed ignoranza è stato riparato: però è
riprovata la sapienza de sapienti e la prudenza de prudenti è rigettata. Stolti del mondo son
stati quelli ch'han formata la religione, gli ceremoni, la legge, la fede, la regola di vita; gli
maggiori asini del mondo (che son quei che, privi d'ogni altro senso e dottrina, e voti d'ogni
vita e costume civile, marciti sono nella perpetua pedanteria) son quelli che per grazia del
cielo riformano la temerata e corrotta fede, medicano le ferite de l'impiagata religione, e
togliendo gli abusi de le superstizioni, risaldano le scissure della sua veste; non son quelli
che con empia curiosità vanno, o pur mai andâro perseguitando gli arcani della natura,
computaro le vicissitudini de le stelle. Vedete se sono o furon giamai solleciti circa le cause
secrete de le cose; se perdonano a dissipazion qualunque de regni, dispersion de popoli,
incendii, sangui, ruine ed esterminii; se curano che perisca il mondo tutto per essi loro:
purché la povera anima sia salva, purché si faccia l'edificio in cielo, purché si ripona il
tesoro in quella beata patria, niente curando della fama e comodità e gloria di questa frale ed
incerta vita, per quell'altra certissima ed eterna. Questi son stati significati per l'allegoria de
gli antiqui sapienti (alli quali non ha voluto mancar il divino spirito di revelar qualche cosa,
almeno per farli inescusabili) in quello sentenzioso apologo de gli dei che combattirono
contra gli rubelli giganti, figli de la terra ed arditi predatori del cielo; che con la voce de gli
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asini confusero, atterrirono, spaventâro, vinsero e domorno. Il medesimo è sufficientemente
espresso dove, alzando il velo de la sacrata figura, s'affigono gli occhi all'anagogico senso di
quel divin Sansone, che con l'asinina mascella tolse la vita a mille Filistei; perché dicono gli
santi interpreti, che nella mascella de l'asina, cioè de gli predicatori de la legge e ministri
della sinagoga, e nella mascella del pulledro de gli asini, cioè de' predicatori della nova
legge e ministri de l'ecclesia militante, delevit eos, cioè scancellò, spinse que' mille, quel
numero compito, que' tutti, secondo che è scritto: Cascarono dal tuo lato mille, e dalla tu a
destra diece milia; ed è chiamato il luogo Ramath_lechi, cioè exaltazion de la mascella.
Dalla quale per frutto di predicazione non solo è seguita la ruina delle avversarie ed odiose
potestadi, ma anco la salute de regenerati: perché dalla medesima mascella, cioè per virtù di
medesima predicazione, son uscite e comparse quelle acqui, che promulgando la divina
sapienza, diffondeno la grazia celeste e fanno gli suoi abbeverati capaci de vita eterna.
O dunque forte, vittoriosa e trionfatrice mascella d'un asino morto, o diva, graziosa e
santa mascella d'un polledro defunto, or che deve essere della santità, grazia e divinità,
fortezza, vittoria e trionfo dell'asino tutto, intiero e vivente, - asino, pullo e madre, - se di
quest'osso e sacrosanta reliquia la gloria ed exaltazion è tanta? E mi volto a voi, o
dilettissimi ascoltatori; a voi, a voi mi rivolto, o amici lettori de mia scrittura ed ascoltatori
de mia voce; e vi dico, e vi avertisco, e vi esorto, e vi scongiuro, che ritorniate a voi
medesimi. Datemi scampo dal vostro male, prendete partito del vostro bene, banditevi dalla
mortal magnificenza del core, ritiratevi alla povertà del spirito, siate umili di mente,
abrenunziate alla raggione, estinguete quella focosa luce de l'intelletto che vi accende, vi
bruggia e vi consuma; fuggite que' gradi de scienza che per certo aggrandiscono i vostri
dolori; abnegate ogni senso, fatevi cattivi alla santa fede, siate quella benedetta asina,
riducetevi a quel glorioso pulledro, per li quali soli il redentor del mondo disse a gli ministri
suoi: Andate al castello ch'avete a l'incontro; cioè andate per l'universo mondo sensibile e
corporeo il quale come simulacro è opposto e supposto al mondo intelligibile ed incorporeo.
Trovarete l'asina ed il pulledro legati: v'occorrerà il popolo ebreo e gentile, sottomesso e
tiranneggiato dalla captività di Belial.
Dice ancora: Scioglietele: levateli de la cattività, per la predicazion dell'Evangelio ed
effusion de l'acqua battismale; e menatele a me, perché mi servano, perché siano miei:
perché portando il peso del mio corpo, cioè della mia santa instituzione e legge sopra le
spalli, ed essendo guidati dal freno delli miei divini consegli, sian fatti degni e capabili
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d'entrar meco nella trionfante Ierusalem, nella città celeste. Qua vedete chi son li redemuti,
chi son gli chiamati, chi son gli predestinati, chi son gli salvi: l'asina, l'asinello, gli semplici,
gli poveri d'argumento, gli pargoletti, quelli ch'han discorso de fanciulli; quelli, quelli
entrano nel regno de' cieli; quelli, per dispreggio del mondo e de le sue pompe, calpestrano
gli vestimenti, hanno bandita da sé ogni cura del corpo, de la carne che sta avolta circa
quest'anima, se l'han messa sotto gli piedi, l'hanno gittata via a terra, per far più gloriosa- e
trionfalmente passar l'asina ed il suo caro asinello.
Pregate, pregate Dio, o carissimi, se non siete ancora asini, che vi faccia dovenir asini.
Vogliate solamente; perché certo certo, facilissimamente vi sarà conceduta la grazia: perché,
benché naturalmente siate asini, e la disciplina commune non sia altro che una asinitade,
dovete avertire e considerar molto bene se siate asini secondo Dio; dico, se siate quei
sfortunati che rimagnono legati avanti la porta, o pur quegli altri felici li quali entran dentro.
Ricordatevi, o fideli, che gli nostri primi parenti a quel tempo piacquero a Dio, ed erano in
sua grazia, in sua salvaguardia, contenti nel terrestre paradiso, nel quale erano asini, cioè
semplici ed ignoranti del bene e male; quando posseano esser titillati dal desiderio di sapere
bene e male, e per consequenza non ne posseano aver notizia alcuna; quando possean
credere una buggia che gli venesse detta dal serpente; quando se gli possea donar ad
intendere sin a questo: che, benché Dio avesse detto che morrebono, ne potesse essere il
contrario: in cotal disposizione erano grati, erano accetti, fuor d'ogni dolor, cura e molestia.
Sovvegnavi ancora ch'amò Dio il popolo ebreo, quando era afflitto, servo, vile, oppresso,
ignorante, onerario, portator de còfini, somarro, che non gli possea mancar altro che la coda
ad esser asino naturale sotto il domìno de l'Egitto: allora fu detto da Dio suo popolo, sua
gente, sua scelta generazione. Perverso, scelerato, reprobo, adultero fu detto quando fu sotto
le discipline, le dignitadi, le grandezze e similitudine de gli altri popoli e regni onorati
secondo il mondo. Non è chi non loda l'età de l'oro, quando gli uomini erano asini, non
sapean lavorar la terra, non sapean l'un dominar a l'altro, intender più de l'altro, avean per
tetto gli antri e le caverne, si donavano a dosso come fan le bestie, non eran tante coperte e
gelosie e condimenti de libidine e gola; ogni cosa era commune, il pasto eran le poma, le
castagne, le ghiande in quella forma che son prodotte dalla madre natura. Non è chi non
sappia qualmente non solamente nella specie umana, ma ed in tutti gli geni d'animali la
madre ama più, accarezza più, mantien contento più ed ocioso, senza sollecitudine e fatica,
abbraccia, bacia, stringe, custodisce il figlio minore, come quello che non sa male e bene, ha
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dell'agnello, ha de la bestia, è un asino, non sa cossì parlare, non può tanto discorrere; e
come gli va crescendo il senno e la prudenza, sempre a mano a mano se gli va scemando
l'amore, la cura, la pia affezione che gli vien portata da gli suoi parenti. Non è nemico che
non compatisca, abblandisca, favorisca a quella età, a quella persona che non ha del virile,
non ha del demonio, non ha de l'uomo, non ha del maschio, non ha de l'accorto, non ha del
barbuto, non ha del sodo, non ha del maturo. Però quando si vuol mover Dio a pietà e
comiserazione il suo Signore, disse quel profeta: Ah ah ah, Domine, quia nescio loqui; dove,
col ragghiare e sentenza, mostra esser asino. Ed in un altro luogo dice: Quia puer sum. Però
quando si brama la remission della colpa, molte volte si presenta la causa nelli divini libri,
con dire: Quia stulte egimus, stulte egerunt, quia nesciunt quid faciant, ignoramus, non
intellexerunt. Quando si vuol impetrar da lui maggior favore ed acquistar tra gli uomini
maggior fede, grazia ed autorità, si dice in un loco, che li apostoli eran stimati imbreachi; in
un altro loco, che non sapean quel che dicevano, perché non erano essi che parlavano: ed un
de più eccellenti, per mostrar quanto avesse del semplice, disse che era stato rapito al terzo
cielo, uditi arcani ineffabili, e che non sapea s'era morto o vivo, se era in corpo o fuor di
quello. Un altro disse che vedeva gli cieli aperti, e tanti e tanti altri propositi che tegnono gli
diletti de Dio, alli quali è revelato quello che è occolto a la sapienza umana, ed è asinità
esquisita a gli occhi del discorso razionale: perché queste pazzie, asinitadi e bestialitadi son
sapienze, atti eroici ed intelligenze appresso il nostro Dio; il qual chiama li suoi pulcini, il
suo grege, le sue pecore, li suoi parvuli, li suoi stolti, il suo pulledro, la sua asina que' tali
che li credeno, l'amano, il siegueno. Non è, non è, dico, meglior specchio messo avanti gli
occhi umani che l'asinitade ed asino, il qual più esplicatamente secondo tutti gli numeri
dimostre qual esser debba colui, che faticandosi nella vigna del Signore deve aspettar la
retribuzion del danaio diurno, il gusto della beatifica cena, il riposo che segue il corso di
questa transitoria vita. Non è conformità megliore o simile che ne amene, guide e conduca
alla salute eterna più attamente che far possa questa vera sapienza approvata dalla divina
voce: come, per il contrario, non è cosa che ne faccia più efficacemente impiombar al centro
ed al baratro tartareo, che le filosofiche e razionali contemplazioni, quali nascono da gli
sensi, crescono nella facultà discorsiva e si maturano nell'intelletto umano. Forzatevi,
forzatevi dunque ad esser asini, o voi, che siete uomini. E voi, che siete già asini, studiate,
procurate, adattatevi a proceder sempre da bene in meglio, a fin che perveniate a quel
termine, a quella dignità, la quale, non per scienze ed opre, quantunque grandi, ma per fede
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s'acquista; non per ignoranza e misfatti, quantunque enormi, ma per la incredulità (come
dicono, secondo l'Apostolo) si perde. Se cossì vi disporrete, se tali sarete e talmente vi
governarete, vi trovarete scritti nel libro de la vita, impetrarete la grazia in questa militante,
ed otterrete la gloria in quella trionfante ecclesia, nella quale vive e regna Dio per tutti secoli
de secoli. Cossì sia!
UN MOLTO PIO SONETTO
CIRCA LA SIGNIFICAZIONE DE L'ASINA E PULLEDRO.
- Ite al castello ch'avete d'avanti,
E trovarete l'asina col figlio:
Quelli sciogliete, e dandogli de piglio,
L'amenarete a me, servi miei santi.
S'alcun, per impedir misterii tanti,
Contra di voi farà qualche bisbiglio,
Risponderete lui con alto ciglio,
Ch'il gran Signor le vuol far trionfanti. -
Dice cossì la divina scrittura,
Per notar la salute de' credenti
Al redentor dell'umana natura.
Gli fideli di Giuda e de le genti
Con vita parimente sempia e pura
Potran montar a que' scanni eminenti.
Divoti e pazienti
Vegnon a fars'il pullo con la madre
Contubernali a l'angeliche squadre.
DIALOGO PRIMO.
INTERLOCUTORI
Sebasto, Saulino, Coribante.
<SEB.> E` il peggio che diranno che metti avanti metaffore, narri favole, raggioni in
parabola, intessi enigmi, accozzi similitudini, tratti misterii, mastichi tropologie.
<SAUL.> Ma io dico la cosa a punto come la passa; e come la è propriamente, la metto
avanti gli occhi.
<COR.> Id est, sine fuco, plane, candide; ma vorrei che fusse cossì, come dite, da
dovero.
<SAUL.> Cossì piacesse alli dei, che fessi tu altro che fuco con questa tua gestuazione,
toga, barba e supercilio: come, anco quanto a l'ingegno, candide, plane et sine fuco, mostri a
gli occhi nostri la idea della pedantaria.
<COR.> Hactenus haec? Tanto che Sofia loco per loco, sedia per sedia vi condusse?
<SAUL.> Sì.
<SEB.> Occórrevi de dir altro circa la provisione di queste sedie?
<SAUL.> Non per ora, se voi non siete pronto a donarmi occasione di chiarirvi de più
punti circa esse col dimandarmi e destarmi la memoria, la quale non può avermi suggerito la
terza parte de notabili propositi degni di considerazione.
<SEB.> Io, a dir il vero, rimagno sì suspeso dal desio de saper qual cosa sia quella ch'il
gran padre de gli dei ha fatto succedere in quelle due sedie, l'una Boreale e l'altra Australe,
che m'ha parso il tempo de mill'anni per veder il fine del vostro filo, quantunque curioso,
utile e degno: perché quel proposito tanto più mi vien a spronar il desio d'esserne fatto
capace, quanto voi più l'avete differito a farlo udire.
<COR.> Spes etenim dilata affligit animum, vel animam, ut melius dicam; haec enim
mage significat naturam passibilem.
<SAUL.> Bene. Dunque, perché non più vi tormentiate su l'aspettar della risoluzione,
sappiate che nella sedia prossima immediata e gionta al luogo dove era l'Orsa minore, e nel
quale sapete essere exaltata la Veritade, essendone tolta via l'Orsa maggiore nella forma
ch'avete inteso, per providenza del prefato consiglio vi ha succeduto l'Asinità in abstratto: e
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là dove ancora vedete in fantasia il fiume Eridano, piace a gli medesimi che vi si trove
l'Asinità in concreto, a fine che da tutte tre le celesti reggioni possiamo contemplare
l'Asinità, la quale in due facelle era come occolta nella via de' pianeti, dov'è la coccia del
Cancro.
<COR.> Procul, o procul este, profani! Questo è un sacrilegio, un profanismo, di voler
fingere (poscia che non è possibile che cossì sia in fatto) vicino a l'onorata ed eminente
sedia de la Verità essere l'idea de sì immonda e vituperosa specie, la quale è stata da gli
sapienti Egizii ne gli lor ieroglifici presa per tipo de l'ignoranza, come ne rende testimonio
Oro Apolline, più volte replicando: qualmente gli Babiloni sacerdoti con l'asinino capo
compiuto al busto e cervice umana volsero designar un uomo imperito ed indisciplinabile.
<SEB.> Non è necessario andar al tempo e luogo d'Egizii, se non è né fu mai
generazione, che con l'usato modo di parlare non conferme quel che dice Coribante.
<SAUL.> Questa è la raggione, per cui ho differito al fine di raggionar circa queste due
sedie: atteso che dalla consuetudine del dire e credere m'areste creduto parabolano, e con
minor fede ed attenzione arreste perseverato ad ascoltarmi nella descrizione della riforma de
l'altre sedie celesti, se prima con prolissa infilacciata de propositi non v'avesse resi capaci di
quella verità; stante che queste due sedie da per esse meritano almeno altretanto de
considerazione, quanto vedete aver ricchezza di tal suggetta materia. Or non avete voi unqua
udito, che la pazzia, ignoranza ed asinità di questo mondo è sapienza, dottrina e divinità in
quell'altro?
<SEB.> Cossì è stato riferito da primi e principali teologi; ma giamai è stato usato un
cossì largo modo de dire, come è il vostro.
<SAUL.> E perché giamai la cosa è stata chiarita ed esplicata cossì, come io son per
esplicarvela e chiarirvela al presente.
<COR.> Or dite, perché staremo attenti ad ascoltarvi.
<SAUL.> Perché non vi spantiate, quando udite il nome d'asino, asinità, bestialità,
ignoranza, pazzia, prima voglio proporvi avanti gli occhi della considerazione, e rimenarvi a
mente il luogo de gl'illuminati cabalisti, che con altri lumi che di Linceo, con altri occhi che
di Argo, profondorno, non dico sin al terzo cielo, ma nel profondo abisso del sopramondano
ed ensofico universo: per la contemplazione di quelle diece Sephiroth che chiamiamo in
nostra lingua membri ed indumenti, penetrorno, veddero, concepirno quantum fas est
homini loqui. Ivi son le dimensioni Ceter, Hocma, Bina, Hesed, Geburah, Tipheret, Nezah,
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Hod, Iesod, Malchuth; de quali la prima da noi è detta Corona, la seconda Sapienza, la terza
Providenza, la quarta Bontà, la quinta Fortezza, la sesta Bellezza, la settima Vittoria, la
ottava Lode, la nona Stabilimento, la decima Regno. Dove dicono rispondere diece ordini
d'intelligenze; de quali il primo vien da essi chiamato Haioth heccados, il secondo Ophanim,
il terzo Aralin, il quarto Hasmalin, il quinto Choachin, il sesto Malachim, il settimo Elohim,
l'ottavo Benelohim, il nono Maleachim, il decimo Issim; che noi nominiamo il primo
Animali santi o Serafini, il secondo Ruote formanti o Cherubini, il terzo Angeli robusti o
Troni, il quarto Effigiatori, il quinto Potestadi, il sesto Virtudi, il settimo Principati o dei,
l'ottavo Arcangeli o figli de dei, il nono Angeli o Imbasciatori, il decimo Anime separate o
Eroi. Onde nel mondo sensibile derivano le diece sfere: 1. il primo mobile, 2. il cielo stellato
o ottava sfera o firmamento, 3. il cielo di Saturno, 4. di Giove, 5. di Marte, 6. del Sole, 7. di
Venere, 8. di Mercurio, 9. della Luna, 10. del Chaos sublunare diviso in quattro elementi.
Alli quali sono assistenti diece motori, o insite diece anime: la prima Metattron o principe
de faccie, la seconda Raziel, la terza Zaphciel, la quarta Zadkiel, la quinta Camael, la sesta
Raphael, la settima Aniel, l'ottava Michael, la nona Gabriel, la decima Samael; sotto il quale
son quattro terribili principi, de quali il primo domina nel fuoco ed è chiamato da Iob
Behemoth, il secondo domina nell'aria ed è nomato da cabalisti e comunmente Beelzebub,
cioè principe de mosche, idest de volanti immondi, il terzo domina nell'acqui ed è nomato
da Iob Leviathan, il quarto è presidente ne la terra, la qual spasseggia e circuisse tutta, ed è
chiamato da Iob Sathan. Or contemplate qua, che secondo la cabalistica revelazione Hocma,
a cui rispondeno le forme o ruote, nomate Cherubini, che influiscono nell'ottava sfera, dove
consta la virtù dell'intelligenza de Raziele, l'asino o asinità è simbolo della sapienza.
<COR.> Parturient montes.
<SAUL.> Alcuni thalmutisti apportano ia raggione morale di cotale influsso, arbore,
scala o dependenza, dicendo che però l'asino è simbolo della sapienza nelli divini Sephiroth,
perché a colui che vuol penetrare entro gli secreti ed occolti ricetti di quella, sia
necessariamente de mistiero d'esser sobrio e paziente, avendo mustaccio, testa e schena
d'asino; deve aver l'animo umile, ripremuto e basso, ed il senso che non faccia differenza tra
gli cardi e le lattuche.
<SEB.> Io crederei più tosto, che gli Ebrei abbiano tolti questi misterii da gli Egizii; li
quali per cuoprir certa ignominia loro hanno voluto in tal maniera esaltar al cielo l'asino e
l'asinità.
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<COR.> Declara.
<SEB.> Oco, re de Persi, essendo notato da gli Egizi, suoi nemici, per il simulacro
d'asino, ed appresso essendo lui vittorioso sopra de loro, ed avendoseli fatti cattivi, le
costrinse ad adorar l'imagine de l'asino e sacrificargli il bove già tanto adorato da essi, con
rimproverargli che a l'asino il lor bove Opin o Apin verrebbe immolato. Questi dunque, per
onorar quel loro vituperoso culto, e cuoprir quella machia, hanno voluto fingere raggioni
sopra il culto de l'asino; il quale da quel che gli fu materia di biasimo e burla, gli venne ad
esser materia di riverenza. E cossì poi, in materia d'adorazione, admirazione,
contemplazione, onore e gloria, se l'hanno fatto cabalistico, archetipo, sephirotico,
metafisico, ideale, divino. Oltre, essendo l'asino animal de Saturno e della Luna, e gli Ebrei
di natura, ingegno e fortuna saturnini e lunari, gente sempre vile, servile, mercenaria,
solitaria, incomunicabile ed inconversabile con l'altre generazioni, le quali bestialmente
spregiano, e da le quali per ogni raggione son degnamente dispreggiate; or questi si trovâro
nella cattività e servizio de l'Egitto, dove erano destinati ad esser compagni a gli asini con
portar le some e servire alle fabriche; e là parte per esserno leprosi, parte perché intesero gli
Egizii, che in essi pestilanziati regnava l'impression saturnia ed asinina, per la conversazione
ch'aveano con questa razza; vogliono alcuni che le discacciassero dagli lor confini con
lasciargli l'idolo dell'asino d'oro alle mani; il quale tra tutti li dei se mostrava più
propisiabile a questa gente, cossì a tutte l'altre nemica e ritrosa, come Saturno a tutti gli
pianeti. Onde rimanendo con il proprio culto, lasciando da canto l'altre feste egiziane,
celebravano per il lor Saturno, demostrato nell'idolo de l'asino, gli sabbati, e per la lor Luna
le neomenie, di sorte che non solamente uno, ma, ed oltre, tutti gli sephiroti possono essere
asinini ai cabalisti giudei.
<SAUL.> Voi dite molte cose autentiche, molte vicine all'autentiche, altre simili a
l'autentiche, alcune contrarie a l'autentiche ed approvate istorie. Onde dite alcuni propositi
veri e boni, ma nulla dite bene e veramente, spreggiando e burlandovi di questa santa
generazione, dalla quale è proceduta tutta quella luce che si trova sin oggi al mondo, e che
promette de donar per tanti secoli. Cossì perseveri nel tuo pensiero ad aver l'asino ed asinità
per cosa ludibriosa; quale, qualunque sia stata appresso Persi, Greci e Latini, non fu però
cosa vile appresso gli Egizii ed Ebrei. Là onde è falsità ed impostura questa tra l'altre, cioè
che quel culto asinino e divino abbia avuto origine dalla forza e violenza, e non più tosto
ordinato dalla raggione, e tolto principio dalla elezione.
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<SEB.> Verbi gratia, forza, violenza, raggion ed elezione di Oco.
<SAUL.> Io dico divina inspirazione, natural bontade ed umana intelligenza. Ma prima
che vengamo al compimento di questa demostrazione, considerate un poco se mai ebbero, o
denno aver avuto, o tener a vile la idea ed influenza de gli asini questi Ebrei ed altri
partecipi e consorti de la lor santimonia. Il patriarca Iacob, celebrando la natività e sangue
della sua prole, e padri de le dodici tribù con la figura de le dodici bestie, vedete se ebbe
ardimento di lasciar l'asino. Non avete notato che come fe' Ruben montone, Simone orso,
Levi cavallo, Giuda leone, Zabulon balena, Dan serpente, Gad volpe, Aser bove, Nettalim
cervio, Gioseffo pecora, Beniamin lupo, cossì fece il sesto genito Isachar asino,
insoffiandoli per testamento quella bella nuova e misteriosa profezia nell'orecchio: Isachar,
asino forte, che poggia tra gli termini, ha trovato il riposo buono ed il fertilissimo terreno; ha
sottoposte le robuste spalli al peso, ed èssi destinato al tributario serviggio. Queste sacrate
dodici generazioni rispondeno da qua basso a gli alti dodici segni del zodiaco, che son nel
cingolo del firmamento, come vedde e dechiarò il profeta Balaam, quando dal luogo
eminente d'un colle le scòrse disposte e distinte in dodici castramentazioni alla pianura,
dicendo: - Beato e benedetto popolo d'Israele, voi sète stelle, voi li dodici segni messi in sì
bell'ordine di tanti generosi greggi. Cossì promese il vostro Giova che moltiplicarebbe il
seme del vostro gran padre Abraamo come le stelle del cielo, cioè secondo la raggione delli
dodici segni del zodiaco, li quali venite a significar per li nomi de dodici bestie. - Qua
vedete qualmente quel profeta illuminato, dovendole benedire in terra, andò a presentarseli
montato sopra l'asino, per la voce de l'asino venne instrutto della divina volontà, con la forza
de l'asino vi pervenne, da sopra l'asino stese le mani alle tende, e benedisse quel popolo de
Dio santo e benedetto, per far evidente che quelli asini saturnini ed altre bestie, che hanno
influsso dalle dette sephiroth, da l'asino archetipo, per mezzo de l'asino naturale e profetico,
doveano esser partecipi de tanta benedizione.
<COR.> Multa igitur asinorum genera: aureo, archetipo, indumentale, celeste,
intelligenziale, angelico, animale, profetico, umano, bestiale, gentile, etico, civile ed
economico; vel essenziale, subsistenziale, metafisico, fisico, ipostatico, nozionale,
matematico, logico e morale; vel superno, medio ed inferno; vel intelligibile, sensibile e
fantastico; vel ideale, naturale e nozionale; vel ante multa, in multis et post multa. Or
seguìte, perché paulatim, gradatim atque pedetentim, più chiaro, alto e profondo venite a
riuscirmi.
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<SAUL.> Per venir dunque a noi, non vi deve parer strano che la asinità sia messa in
sedia celeste nella distribuzione delle catedre, che sono nella parte superna di questo mondo
ed universo corporeo; atteso che esso deve esser corrispondente e riconoscere in se stesso
certa analogia al mondo superiore.
<COR.> Ita contiguus hic illi mundus, ut omnis eius virtus inde gubernetur, come oltre
promulgò il prencipe de' peripatetici nel principio del primo della Metorologica
contemplazione.
<SEB.> O che ampolle, o che parole sesquipedali son le vostre, o dottissimo ed
altritonante messer Coribante!
<COR.> Ut libet.
<SEB.> Ma permettiate che si proceda al proposito, e non ne interrompete!
<COR.> Proh!
<SAUL.> A la verità nulla cosa è più prossima e cognata che la scienza; la quale si deve
distinguere, come è distinta in sé, in due maniere: cioè in superiore ed inferiore. La prima è
sopra la creata verità, ed è l'istessa verità increata, ed è causa del tutto; atteso che per essa le
cose vere son vere, e tutto quel che è, è veramente quel tanto che è. La seconda è verità
inferiore, la quale né fa le cose vere né è le cose vere, ma pende, è prodotta, formata ed
informata da le cose vere, ed apprende quelle non in verità, ma in specie e similitudine:
perché nella mente nostra, dove è la scienza dell'oro, non si trova l'oro in verità, ma
solamente in specie e similitudine. Sì che è una sorte de verità, la quale è causa delle cose, e
si trova sopra tutte le cose; un'altra sorte che si trova nelle cose ed è delle cose; ed è un'altra
terza ed ultima, la quale è dopo le cose e dalle cose. La prima ha nome di causa, la seconda
ha nome di cosa, la terza ha nome di cognizione. La verità nel primo modo è nel mondo
archetipo ideale significata per un de' sephiroth; nel secondo modo è nella prima sedia dove
è il cardine del cielo a noi supremo; nel terzo modo è nella detta sedia che prossimamente
da questo corporeo cielo influisce ne gli cervelli nostri, dove è l'ignoranza, stoltizia, asinità,
ed onde è stata discacciata l'Orsa maggiore. Come dunque la verità reale e naturale è
essaminata per la verità nozionale, e questa ha quella per oggetto, e quella mediante la sua
specie ha questa per suggetto, cossì è bisogno che a quella abitazione questa sia vicina e
congionta.
<SEB.> Voi dite bene, che secondo l'ordine della natura sono prossimi la verità e
l'ignoranza o asinità: come sono talvolta uniti l'oggetto, l'atto e la potenza. Ma fate ora
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chiaro, perché più tosto volete far gionta e vicina l'ignoranza o asinità, che la scienza o
cognizione: atteso che tanto manca che l'ignoranza e pazzia debbano esser prossime e come
coabitatrici della verità, che ne denno essere a tutta distanza lontane, perché denno esser
gionte alla falsità, come cose appartenenti ad ordine contrario.
<SAUL.> Perché la sofia creata senza l'ignoranza o pazzia, e per conseguenza senza
l'asinità che le significa ed è medesima con esse, non può apprendere la verità; e però
bisogna che sia mediatrice; perché come nell'atto mediante concorreno gli estremi o i
termini, oggetto e potenza, cossì nell'asinità concorreno la verità e la cognizione, detta da
noi sofia.
<SEB.> Dite brevemente la caggione.
<SAUL.> Perché il saper nostro è ignorare, o perché non è scienza di cosa alcuna e non
è apprensione di verità nessuna, o perché se pur a quella è qualche entrata, non è se non per
la porta che ne viene aperta da l'ignoranza, la quale è l'istesso camino, portinaio e porta. Or
se la sofia scorge la verità per l'ignoranza, la scorge per la stoltizia consequentemente, e
consequentemente per l'asinità. Là onde chi ha tal cognizione, ha de l'asino, ed è partecipe di
quella idea.
<SEB.> Or mostrate come siano vere le vostre assumpzioni: perché voglio concedere le
illazioni tutte; perché non ho per inconveniente che chi è ignorante, per quanto è ignorante,
è stolto; e chi è stolto, per quanto è stolto, è asino: e però ogni ignoranza è asinità.
<SAUL.> Alla contemplazion de la verità altri si promuoveno per via di dottrina e
cognizione razionale, per forza de l'intelletto agente che s'intrude nell'animo, excitandovi il
lume interiore. E questi son rari; onde dice il poeta:
Pauci, quos ardens evexit ad aethera virtus.
Altri per via d'ignoranza vi si voltano e forzansi di pervenirvi. E di questi alcuni sono
affetti di quella che è detta ignoranza di semplice negazione: e costoro né sanno, né
presumeno di sapere; altri di quella che è detta ignoranza di prava disposizione: e tali,
quanto men sanno e sono imbibiti de false informazioni, tanto più pensano di sapere: quali,
per informarsi del vero, richiedeno doppia fatica, cioè de dismettere l'uno abito contrario e
di apprender l'altro. Altri di quella ch'è celebrata come divina acquisizione; ed in questa son
color che né dicendo, né pensando di sapere, ed oltre essendo creduti da altri ignorantissimi,
son veramente dotti, per ridursi a quella gloriosissima asinitade e pazzia. E di questi alcuni
sono naturali, come quei che caminano con il lume suo razionale, con cui negano col lume
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del senso e della raggione ogni lume di raggione e senso; alcuni altri caminano, o per dir
meglio si fanno guidare con la lanterna della fede, cattivando l'intelletto a colui che gli
monta sopra ed a sua bella posta l'addirizza e guida. E questi veramente son quelli che non
possono essi errare, perché non caminano col proprio fallace intendimento, ma con infallibil
lume di superna intelligenza. Questi, questi son veramente atti e predestinati per arrivare
alla Ierusalem della beatitudine e vision aperta della verità divina: perché gli sopramonta
quello, senza il qual sopramontante non è chi condurvesi vaglia.
<SEB.> Or ecco come si distingueno le specie dell'ignoranza ed asinitade, e come vegno
a mano a mano a condescendere per concedere l'asinitade essere una virtù necessaria e
divina, senza la quale sarrebe perso il mondo, e per la quale il mondo tutto è salvo.
<SAUL.> Odi a questo proposito un principio per un'altra più particular distinzione.
Quello ch'unisce l'intelletto nostro, il qual è nella sofia, alla verità, la quale è l'oggetto
intelligibile, è una specie d'ignoranza, secondo gli cabalisti e certi mistici teologi; un'altra
specie, secondo gli pirroniani, efettici ed altri simili; un'altra, secondo teologi cristiani, tra'
quali il Tarsense la viene tanto più a magnificare, quanto a giudicio di tutt'il mondo è
passata per maggior pazzia. Per la prima specie sempre si niega; onde vien detta ignoranza
negativa, che mai ardisce affirmare. Per la seconda specie sempre si dubita, e mai ardisce
determinare o definire. Per la terza specie gli principii tutti s'hanno per conosciuti, approvati
e con certo argumento manifesti, senza ogni demostrazione ed apparenza. La prima è
denotata per l'asino pullo, fugace ed errabondo; la seconda per un'asina, che sta fitta tra due
vie, dal mezo de quali mai si parte, non possendosi risolvere per quale delle due più tosto
debba muovere i passi; la terza per l'asina con il suo pulledro, che portano su la schena il
redentor del mondo: dove l'asina, secondo che gli sacri dottori insegnano, è tipo del popolo
giudaico, ed il pullo del popolo gentile, che, come figlia ecclesia, è parturito dalla madre
sinagoga; appartenendo cossì questi come quelli alla medesima generazione, procedente dal
padre de' credenti, Abraamo. Queste tre specie d'ignoranza, come tre rami, si riducono ad un
stipe, nel quale da l'archetipo influisce l'asinità, e che è fermo e piantato su le radici delli
diece sephiroth.
<COR.> O bel senso! Queste non sono retorice persuasioni, né elenchici sofismi, né
topice probabilitadi, ma apodiptice demostrazioni; per le quali l'asino non è sì vile animale
come comunmente si crede, ma di tanto più eroica e divina condizione.
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<SEB.> Non è d'uopo ch'oltre t'affatichi, o Saulino, per venir a conchiudere quel tanto
che io dimandavo che da te mi fusse definito: sì perché avete sodisfatto a Coribante, sì anco
perché da li posti mezi termini ad ogni buono intenditore può esser facilmente sodisfatto.
Ma di grazia, fatemi ora intendere le raggioni della sapienza, che consiste nell'ignoranza ed
asinitade iuxta il secondo modo: cioè con qual raggione siano partecipi dell'asinità gli
pirroniani, efettici ed altri academici filosofi; perché non dubito della prima e terza specie,
che medesime sono altissime e remotissime da' sensi e chiarissime, di sorte che non è occhio
che non le possa conoscere.
<SAUL.> Presto verrò al proposito della vostra dimanda; ma voglio che prima notiate il
primo e terzo modo di stoltizia ed asinitade concorrere in certa maniera in uno; e però
medesimamente pendeno da principio incomprensibile ed ineffabile, a constituir quella
cognizione, ch'è disciplina delle discipline, dottrina delle dottrine ed arte de le arti. Della
quale voglio dirvi in che maniera con poco o nullo studio e senza fatica alcuna ognun che
vuole e volse, ne ha possuto e può esser capace. Veddero e considerorno que' santi dottori e
rabini illuminati, che gli superbi e presumptuosi sapienti del mondo, quali ebbero fiducia nel
proprio ingegno, e con temeraria e gonfia presunzione hanno avuto ardire d'alzarsi alla
scienza de secreti divini e que' penetrali della deitade, non altrimente che coloro ch'edificâro
la torre di Babelle, son stati confusi e messi in dispersione, avendosi essi medesimi serrato il
passo, onde meno fussero abili alla sapienza divina e visione della veritade eterna. Che fêro?
qual partito presero? Fermâro i passi, piegâro o dismisero le braccia, chiusero gli occhi,
bandîro ogni propria attenzione e studio, riprovâro qualsivoglia uman pensiero, riniegâro
ogni sentimento naturale: ed in fine si tennero asini. E quei che non erano, si transformâro in
questo animale: alzâro, distesero, acuminâro, ingrossâro e magnificorno l'orecchie; e tutte le
potenze de l'anima riportorno e uniro nell'udire, con ascoltare solamente e credere: come
quello, di cui si dice: In auditu auris obedivit mihi. Là concentrandosi e cattivandosi la
vegetativa, sensitiva ed intellettiva facultade, hanno inceppate le cinque dita in un'unghia,
perché non potessero, come l'Adamo stender le mani ad apprendere il frutto vietato
dall'arbore della scienza, per cui venessero ad essere privi de frutti de l'arbore della vita, o
come Prometeo (che è metafora di medesimo proposito), stender le mani a suffurar il fuoco
di Giove, per accendere il lume nella potenza razionale. Cossì li nostri divi asini, privi del
proprio sentimento ed affetto, vegnono ad intendere non altrimente che come gli vien
soffiato a l'orecchie dalle revelazioni o de gli dei o de' vicarii loro; e per consequenza a
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governarsi non secondo altra legge che di que' medesimi. Quindi non si volgono a destra o a
sinistra, se non secondo la lezione e raggione che gli dona il capestro o freno che le tien per
la gola o per la bocca, non caminano se non come son toccati. Hanno ingrossate le labbra,
insolidate le mascelle, incotennuti gli denti, a fin che, per duro, spinoso, aspro e forte a
digerir che sia il pasto che gli vien posto avante, non manche d'essere accomodato al suo
palato. Indi si pascono de più grossi e materialacci appositorii, che altra qualsivoglia bestia
che si pasca sul dorso de la terra; e tutto ciò per venire a quella vilissima bassezza, per cui
fiano capaci de più magnifica exaltazione, iuxta quello: Omnis qui se humiliat exaltabitur.
<SEB.> Ma vorrei intendere come questa bestiaccia potrà distinguere che colui che gli
monta sopra, è Dio o diavolo, è un uomo o un'altra bestia non molto maggiore o minore, se
la più certa cosa ch'egli deve avere, è che lui è un asino e vuole essere asino, e non può far
meglior vita ed aver costumi megliori che di asino, e non deve aspettar meglior fine che di
asino, né è possibile, congruo e condigno ch'abbia altra gloria che d'asino?
<SAUL.> Fidele colui che non permette che siano tentati sopra quel che possono: lui
conosce li suoi, lui tiene e mantiene gli suoi per suoi, e non gli possono esser tolti. O santa
ignoranza, o divina pazzia, o sopraumana asinità! Quel rapto, profondo e contemplativo
Areopagita, scrivendo a Caio, afferma che la ignoranza è una perfettissima scienza; come
per l'equivalente volesse dire che l'asinità è una divinità. Il dotto Agostino, molto inebriato
di questo divino nettare, nelli suoi Soliloquii testifica che la ignoranza più tosto che la
scienza ne conduce a Dio, e la scienza più tosto che l'ignoranza ne mette in perdizione. In
figura di ciò vuole ch'il redentor del mondo con le gambe e piedi de gli asini fusse entrato in
Gerusalemme, significando anagogicamente in questa militante quello che si verifica nella
trionfante cittade; come dice il profeta salmeggiante: Non in fortitudine equi voluntatem
habebit, neque in tibiis viri beneplacitum erit ei.
<COR.> Supple tu: Sed in fortitudine et tibiis asinae et pulli filii coniugalis.
<SAUL.> Or, per venire a mostrarvi come non è altro che l'asinità quello con cui
possiamo tendere ed avvicinarci a quell'alta specola, voglio che comprendiate e sappiate non
esser possibile al mondo meglior contemplazione che quella che niega ogni scienza ed ogni
apprension e giudicio di vero; di maniera che la somma cognizione è certa stima che non si
può saper nulla e non si sa nulla, e per consequenza di conoscersi di non posser esser altro
che asino e non esser altro che asino; allo qual scopo giunsero gli socratici, platonici,
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efettici, pirroniani ed altri simili, che non ebbero l'orecchie tanto picciole, e le labbra tanto
delicate, e la coda tanto corta, che non le potessero lor medesimi vedere.
<SEB.> Priegoti, Saulino, non procedere oggi ad altro per confirmazion e dechiarazion
di questo: perché assai per il presente abbiamo inteso; oltre che vedi esser tempo di cena, e
la materia richiede più lungo discorso. Per tanto piacciavi (se così pare anco al Coribante) di
rivederci domani per la elucidazione di questo proposito; ed io menarò meco Onorio, il
quale si ricorda d'esser stato asino, e però è a tutta divozione pitagorico; oltre che ha de
grandi proprii discorsi con gli quali forse ne potrà far capaci di qualche proposito.
<SAUL.> Sarà bene, e lo desidero; perché lui alleviarà la mia fatica.
<COR.> Ego quoque huic adstipulor sententiae, ed è gionta l'ora, in cui debbo licenziar
gli miei discepoli, a fin che propria revisant hospitia, proprios lares. Anzi, si lubet, per sin
tanto che questa materia fia compita, quotidianamente io m'offero pronto in queste ore
medesime farmi qua vosco presente.
<SAUL.> Ed io non mancarò di far il medesimo.
<SEB.> Usciamo dunque.
Fine del primo dialogo.
DIALOGO SECONDO.
INTERLOCUTORI
Sebasto, Onorio, Coribante, Saulino.
<SEB.> E tu ti ricordi d'aver portata la soma?
<ONOR.> La soma, la carga, e tirato il manganello qualche volta. Fui prima in
serviggio d'un ortolano, aggiutandolo a portar lettame dalla cittade di Tebe a l'orto vicino le
mura, ed a riportar poi cauli, lattuche, cipolle, cocumeri, pastinache, ravanelli ed altre cose
simili dall'orto alla cittade. Appresso ad un carbonaio, che mi comprò da quello, ed il qual
pochissimi giorni mi ritenne vivo.
<SEB.> Come è possibile ch'abbi memoria di questo?
<ONOR.> Ti dirò poi. Pascendo io sopra certa precipitosa e sassosa ripa, tratto
dall'avidità d'addentar un cardo ch'era cresciuto alquanto più giù verso il precipizio, che io
senza periglio potesse stendere il collo, volsi al dispetto d'ogni rimorso di conscienza ed
instinto di raggion naturale più del dovero rampegarvi; e caddi da l'alta rupe; onde il mio
signore s'accorse d'avermi comprato per gli corvi. Io privo de l'ergastulo corporeo dovenni
vagante spirto senza membra; e venni a considerare come io, secondo la spiritual sustanza,
non ero differente in geno, né in specie da tutti gli altri spiriti che dalla dissoluzione de altri
animali e composti corpi transmigravano; e viddi come la Parca non solamente nel geno
della materia corporale fa indifferente il corpo dell'uomo da quel de l'asino ed il corpo de gli
animali dal corpo di cose stimate senz'anima; ma ancora nel geno della materia spirituale fa
rimaner indifferente l'anima asinina da l'umana, e l'anima che constituisce gli detti animali,
da quella che si trova in tutte le cose: come tutti gli umori sono uno umore in sustanza, tutte
le parti aeree son un aere in sustanza, tutti gli spiriti sono dall'Anfitrite d'un spirito, ed a
quello ritornan tutti. Or dopo che qualche tempo fui trattenuto in cotal stato, ecco che
Lethaeum ad fluvium Deus evocat agmine magno,
Scilicet immemores supera ut convexa revisant,
Rursus et incipiant in corpora velle reverti.
Allora, scampando io da' fortunati campi, senza sorbir de l'onde del rapido Lete, tra
quella moltitudine di cui era principal guida Mercurio, io feci finta de bevere di quell'umore
in compagnia de gli altri: ma non feci altro ch'accostarvi e toccarvi con le labbra, a fin che
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venessero ingannati gli soprastanti a' quali poté bastare di vedermi la bocca e 'l mento
bagnato. Presi il camino verso l'aria più puro per la porta Cornea, e lasciandomi a le spalli e
sotto gli piedi il profondo, venni a ritrovarmi nel Parnasio monte, il qual non è favola che
per il suo fonte Caballino sia cosa dal padre Apolline consecrata alle Muse sue figlie. Ivi per
forza ed ordine del fato tornai ad essere asino, ma senza perdere le specie intelligibili, delle
quali non rimase vedovo e casso il spirito animale, per forza della cui virtude m'uscirno da
l'uno e l'altro lato la forma e sustanza de due ali sufficientissime ad inalzar in sino a gli astri
il mio corporeo pondo. Apparvi e fui nomato non asino già semplicemente, ma o asino
volante, o ver cavallo Pegaseo. Indi fui fatto exequitor de molti ordini del provido Giove,
servii a Bellerofonte, passai molte celebri ed onoratissime fortune, ed alla fine fui assumpto
in cielo circa gli confini d'Andromeda ed il Cigno d'un canto, e gli Pesci ed Aquario da
l'altro.
<SEB.> Di grazia, rispondetemi alquanto, prima che mi facciate intendere queste cose
più per il minuto. Dunque, per esperienza e memoria del fatto estimate vera l'opinion de'
Pitagorici, Druidi, Saduchimi ed altri simili, circa quella continua metamfisicosi, cioè
transformazione e transcorporazione de tutte l'anime?
Spiritus eque feris humana in corpora transit,
Inque feras noster, nec tempore deperit ullo.
<ONOR.> Messer sì, cossì è certissimamente.
<SEB.> Dunque, constantemente vuoi che non sia altro in sustanza l'anima de l'uomo e
quella de le bestie? e non differiscano se non in figurazione?
<ONOR.> Quella de l'uomo è medesima in essenza specifica e generica con quella de
le mosche, ostreche marine e piante, e di qualsivoglia cosa che si trove animata o abbia
anima: come non è corpo che non abbia o più o meno vivace- e perfettamente
communicazion di spirito in se stesso. Or cotal spirito, secondo il fato o providenza, ordine
o fortuna, viene a giongersi or ad una specie di corpo, or ad un'altra; e secondo la raggione
della diversità di complessioni e membri, viene ad avere diversi gradi e perfezioni d'ingegno
ed operazioni. Là onde quel spirito o anima che era nell'aragna, e vi avea quell'industria e
quelli artigli e membra in tal numero, quantità e forma; medesimo, gionto alla prolificazione
umana, acquista altra intelligenza, altri instrumenti, attitudini ed atti. Giongo a questo che,
se fusse possibile, o in fatto si trovasse che d'un serpente il capo si formasse e stornasse in
figura d'una testa umana, ed il busto crescesse in tanta quantità quanta può contenersi nel
periodo di cotal specie, se gli allargasse la lingua, ampiassero le spalli, se gli ramificassero
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le braccia e mani, ed al luogo dove è terminata coda, andassero ad ingeminarsi le gambe;
intenderebbe, apparirebbe, spirarebbe, parlarebbe, oprarebbe e caminarebbe non altrimente
che l'uomo; perché non sarebbe altro che uomo. Come, per il contrario, l'uomo non sarebbe
altro che serpente, se venisse a contraere, come dentro un ceppo, le braccia e gambe, e l'ossa
tutte concorressero alla formazion d'una spina, s'incolubrasse e prendesse tutte quelle figure
de membri ed abiti de complessioni. Allora arrebe più o men vivace ingegno; in luogo di
parlar, sibilarebbe; in luogo di caminare, serperebbe; in luogo d'edificarsi palaggio, si
cavarebbe un pertuggio; e non gli converrebe la stanza, ma la buca; e come già era sotto
quelle, ora è sotto queste membra, instrumenti, potenze ed atti: come dal medesimo artefice
diversamente inebriato dalla contrazion di materia e da diversi organi armato, appaiono
exercizii de diverso ingegno e pendeno execuzioni diverse. Quindi possete capire esser
possibile che molti animali possono aver più ingegno e molto maggior lume d'intelletto che
l'uomo (come non è burla quel che proferì Mosè del serpe, ehe nominò sapientissimo tra
tutte l'altre bestie de la terra); ma per penuria d'instrumenti gli viene ad essere inferiore,
come quello per ricchezza e dono de medesimi gli è tanto superiore. E che ciò sia la verità,
considera un poco al sottile, ed essamina entro a te stesso quel che sarrebe, se, posto che
l'uomo avesse al doppio d'ingegno che non ave, e l'intelletto agente gli splendesse tanto più
chiaro che non gli splende, e con tutto ciò le mani gli venesser transformate in forma de doi
piedi, rimanendogli tutto l'altro nel suo ordinario intiero; dimmi, dove potrebbe impune
esser la conversazion de gli uomini? Come potrebero instituirsi e durar le fameglie ed unioni
di costoro parimente, o più, che de cavalli, cervii, porci, senza esserno devorati da
innumerabili specie de bestie, per essere in tal maniera suggetti a maggiore e più certa
ruina? E per conseguenza dove sarrebono le instituzioni de dottrine, le invenzioni de
discipline, le congregazioni de cittadini, le strutture de gli edificii ed altre cose assai che
significano la grandezza ed eccellenza umana, e fanno l'uomo trionfator veramente invitto
sopra l'altre specie? Tutto questo, se oculatamente guardi, si referisce non tanto
principalmente al dettato de l'ingegno, quanto a quello della mano, organo de gli organi.
<SEB.> Che dirai de le scimie ed orsi che, se non vuoi dir ch'hanno mano, non hanno
peggior instrumento che la mano?
<ONOR.> Non hanno tal complessione che possa esser capace di tale ingegno; perché
l'universale intelligenza in simili e molti altri animali per la grossezza o lubricità della
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material complessione non può imprimere tal forza di sentimento in cotali spiriti. Però la
comparazion fatta si deve intendere nel geno de' più ingegnosi animali.
<SEB.> Il papagallo non ha egli l'organo attissimo a proferir qualsivoglia voce
articulata? O perché è tanto duro e con tanta fatica può parlar sì poco, senza oltre intendere
quel che dice?
<ONOR.> Perché non ha apprensiva, retentiva adequabile e congenea a quella de
l'uomo, ma tal quale conviene alla sua specie; in raggion della quale non ha bisogno ch'altri
gl'insegne di volare, cercare il vitto, distinguere il nutrimento dal veleno, generare,
nidificare, mutar abitazioni, e riparar alle ingiurie del tempo, e provedere alle necessitadi
della vita non men bene, e tal volta meglior- e più facilmente che l'uomo.
<SEB.> Questo dicono li dotti non esser per intelletto o per discorso, ma per istinto
naturale.
<ONOR.> Fatevi dire da cotesti dotti: cotal instinto naturale è senso o intelletto? Se è
senso, è interno o esterno? Or non essendo esterno, come è manifesto, dicano secondo qual
senso interno hanno le providenze, tecne, arti, precauzioni ed ispedizioni circa l'occasioni
non solamente presenti, ma ancora future, megliormente che l'uomo.
<SEB.> Son mossi da l'intelligenza non errante.
<ONOR.> Questa, se è principio naturale e prossimo applicabile all'operazione prossima
ed individuale, non può essere universale ed estrinseco, ma particolare ed intrinseco, e per
consequenza potenza dell'anima e presidente nella poppa di quella.
<SEB.> Non volete dunque che sia l'intelligenza universale che muove?
<ONOR.> Dico che la intelligenza efficiente universale è una de tutti; e quella muove e
fa intendere; ma, oltre, in tutti è l'intelligenza particulare, in cui son mossi, illuminati ed
intendono; e questa è moltiplicata secondo il numero de gli individui. Come la potenza
visiva è moltiplicata secondo il numero de gli occhi, mossa ed illuminata generalmente da
un fuoco, da un lume, da un sole: cossì la potenza intellettiva è moltiplicata secondo il
numero de suggetti partecipi d'anima, alli quali tutti sopra splende un sole intellettuale.
Cossì dunque sopra tutti gli animali è un senso agente, cioè quello che fa sentir tutti, e per
cui tutti son sensitivi in atto; ed uno intelletto agente, cioè quello che fa intender tutti, e per
cui tutti sono intellettivi in atto; ed appresso son tanti sensi e tanti particolari intelletti
passivi o possibili, quanti son suggetti: e sono secondo tanti specifici e numerali gradi di
complessioni, quante sono le specifice e numerali figure e complessioni di corpo.
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<SEB.> Dite quel che vi piace, ed intendetela come volete; ché io negli animali non
voglio usar di chiamar quello instinto raggionevole intelletto.
<ONOR.> Or se non lo puoi chiamar senso, bisogna che ne gli animali, oltre la potenza
sensitiva ed intellettiva, fingi qualch'altra potenza cognoscitiva.
<SEB.> Dirò ch'è un'efficacia de sensi interiori.
<ONOR.> Tal efficacia possiamo ancor dire che sia lo intelletto umano; onde
naturalmente discorre l'uomo, ed è in nostra libertà di nominar come ci piace e limitar le
diffinizioni e nomi a nostra posta, come fe' Averroe. Ed anco è in mia libertà de dire che il
vostro intendere non è intendere, e qualunque cosa che facciate, pensare che non sia per
intelletto, ma per instinto; poiché l'operazioni de altri animali più degne che le vostre (come
quelle dell'api e de le formiche) non hanno nome d'intelletto ma d'instinto. O pur dirò che
l'instinto di quelle bestiole è più degno che l'intelletto vostro.
<SEB.> Lasciamo per ora de discorrere più ampiamente circa questo, e torniamo a noi.
Vuoi dunque che come d'una medesima cera o altra materia si formano diverse e contrarie
figure, cossì di medesima materia corporale si fanno tutti gli corpi, e di medesima sustanza
spirituale sono tutti gli spiriti?
<ONOR.> Cossì certo; e giongi a questo che per diverse raggioni, abitudini, ordini,
misure e numeri di corpo e spirito sono diversi temperamenti, complessioni, si producono
diversi organi ed appaiono diversi geni de cose.
<SEB.> Mi par che non è molto lontano, né abborrisce da questo parere quel profetico
dogma, quando dice il tutto essere in mano dell'universale efficiente, come la medesima luta
in mano del medesimo figolo, che con la ruota di questa vertigine de gli astri viene ad esser
fatto e disfatto secondo le vicissitudini della generazione e corrozione delle cose, or vase
onorato, or vase contumelioso di medesima pezza.
<ONOR.> Cossì hanno inteso e dechiarato molti de più savii tra gli rabini. Cossì par
ch'intendesse colui che disse: uomini e giumenti salverai secondo che moltiplicarai la
misericordia; cossì si fa chiaro nella metamorfose di Nabuchodonosor. Quindi dubitorno
alcuni Saduchimi del Battista, se lui fusse Elia, non già per medesimo corpo, ma per
medesimo spirito in un altro corpo. In cotal modo di resuscitazione alcuni si prometteno
l'execuzione della giustizia divina secondo gli affetti ed atti ch'hanno exercitati in un altro
corpo.
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<SEB.> Di grazia, non raggioniamo più di questo, perché pur troppo mi comincia a
piacere e parermi più che verisimile la vostra opinione; ed io voglio mantenermi in quella
fede nella quale son stato instrutto da miei progenitori e maestri. E però parliate de successi
istorici, o favoleschi, o metaforici, e lasciate star le demostrazioni ed autoritadi, le quali
credo che sono più tosto storciute da voi che da gli altri.
<ONOR.> Hai buona raggione, fratel mio. Oltre che conviene ch'io torne a compire quel
ch'avevo cominciato a dirti, se non dubiti che con ciò medesimamente non ti vegna a
sobvertere l'ingegno e perturbar la conscienza intemerata.
<SEB.> Non non, certo, questo ascolto più volentiera che mai posso aver ascoltata
favola alcuna.
<ONOR.> Se dunque non m'ascolti sotto specie di dottrina e disciplina, ascoltami per
spasso.
Seconda parte del dialogo.
<SEB.> Ma non vedete Saulino e Coribante che vegnono?
<ONOR.> E ora che doveano esser venuti. Meglio il tardi che mai, Saulino.
<COR.> Si tardus adventus, citior expeditio.
<SEB.> Col vostro tardare avete persi de bei propositi, quali desidero che siano
replicati da Onorio.
<ONOR.> Non, di grazia, perché mi rincrescerebbe; ma seguitiamo il nostro proposito,
perché quanto a quello che sarà bisogno de riportar oltre, ne raggionarremo privatamente
con essi a meglior comodità, perché ora non vorrei interrompere il filo del mio riporto.
<SAUL.> Sì, sì; cossì sia. Andate pur seguitando.
<ONOR.> Or essendo io, come ho già detto, nella region celeste in titolo di cavallo
Pegaseo, mi è avvenuto per ordine del fato, che per la conversione alle cose inferiori (causa
di certo affetto, ch'io indi venevo ad acquistare, la qual molto bene vien descritta dal
platonico Plotino), come inebriato di nettare, venea bandito ad esser or un filosofo, or un
poeta, or un pedante, lasciando la mia imagine in cielo; alla cui sedia a tempi a tempi delle
trasmigrazioni ritornavo, riportandovi la memoria delle specie le quali nell'abitazion
corporale avevo acquistate; e quelle medesime, come in una biblioteca, lasciavo là quando
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accadeva ch'io dovesse ritornar a qualch'altra terrestre abitazione. Delle quali specie
memorabili le ultime son quelle ch'ho cominciate a imbibire a tempo della vita de Filippo
macedone, dopo che fui ingenerato dal seme de Nicomaco, come si crede. Qua, appresso
esser stato discepolo d'Aristarco, Platone ed altri, fui promosso col favor di mio padre,
ch'era consegliero di Filippo, ad esser pedante d'Alexandro Magno: sotto il quale, benché
erudito molto bene nelle umanistiche scienze, nelle quali ero più illustre che tutti li miei
predecessori, entrai in presunzione d'esser filosofo naturale, come è ordinario nelli pedanti
d'esser sempre temerarii e presuntuosi; e con ciò, per esser estinta la cognizione della
filosofia, morto Socrate, bandito Platone, ed altri in altre maniere dispersi, rimasi io solo
lusco intra gli ciechi; e facilmente possevi aver riputazion non sol di retorico, politico,
logico, ma ancora de filosofo. Cossì malamente e scioccamente riportando le opinioni de gli
antiqui, e de maniera tal sconcia, che né manco gli fanciulli e le insensate vecchie
parlarebono ed intenderebono come io introduco quelli galant'uomini intendere e parlare, mi
venni ad intrudere come riformator di quella disciplina della quale io non avevo notizia
alcuna. Mi dissi principe de' peripatetici: insegnai in Atene nel sottoportico Liceo: dove,
secondo il lume, e per dir il vero, secondo le tenebre che regnavano in me, intesi ed insegnai
perversamente circa la natura de li principii e sustanza delle cose, delirai più che l'istessa
delirazione circa l'essenza de l'anima, nulla possevi comprendere per dritto circa la natura
del moto e de l'universo; ed in conclusione son fatto quello per cui la scienza naturale e
divina è stinta nel bassissimo della ruota, come in tempo de gli Caldei e Pitagorici è stata in
exaltazione.
<SEB.> Ma pur ti veggiamo esser stato tanto tempo in admirazion del mondo; e tra
l'altre maraviglie è trovato un certo Arabo ch'ha detto la natura nella tua produzione aver
fatto l'ultimo sforzo, per manifestar quanto più terso, puro, alto e verace ingegno potesse
stampare; e generalmente sei detto demonio della natura.
<ONOR.> Non sarebbono gli ignoranti, se non fusse la fede; e se non la fusse, non
sarebbono le vicissitudini delle scienze e virtudi, bestialitadi ed inerzie ed altre succedenze
de contrarie impressioni, come son de la notte ed il giorno, del fervor de l'estade e rigor de
l'inverno.
<SEB.> Or per venire a quel ch'appartiene alla notizia de l'anima (mettendo per ora gli
altri propositi da canto), ho letti e considerati que' tuoi tre libri nelli quali parli più
balbamente, che possi mai da altro balbo essere inteso; come ben ti puoi accorgere di tanti
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diversi pareri ed estravaganti intenzioni e questionarii, massime circa il dislacciar e
disimbrogliar quel che ti vogli dire in que' confusi e leggieri propositi, gli quali se pur
ascondono qualche cosa, non può esser altro che pedantesca o peripatetica levitade.
<ONOR.> Non è maraviglia, fratello; atteso che non può in conto alcuno essere, che essi
loro possano apprendere il mio intelletto circa quelle cose nelle quali io non ebbi intelletto:
o che vagliano trovar construtto o argumento circa quel ch'io vi voglia dire, se io medesimo
non sapevo quel che mi volesse dire. Qual differenza credete voi essere tra costoro e quei
che cercano le corna del gatto e gambe de l'anguilla? Nulla certo. Della qual cosa
precavendo ch'altri non s'accorgesse, ed io con ciò venesse ad perdere la riputazion di
protosofosso, volsi far de maniera, che chiunque mi studiasse nella natural filosofia (nella
qual fui e mi sentivi a fatto ignorantissimo), per inconveniente o confusion che vi scorgesse,
se non avea qualche lume d'ingegno, dovesse pensare e credere ciò non essere la mia
intenzion profonda, ma più tosto quel tanto che lui, secondo la sua capacità, posseva da gli
miei sensi superficialmente comprendere. Là onde feci che venesse publicata quella Lettera
ad Alexandro, dove protestavo gli libri fisicali esser messi in luce, come non messi in luce.
<SEB.> E per tanto voi mi parete aver isgravata la vostra conscienza; ed hanno torto
questi tanti asinoni a disporsi di lamentarsi di voi nel giorno del giudicio, come di quel che
l'hai ingannati e sedutti, e con sofistici apparati divertiti dal camino di qualche veritade che
per altri principii e metodi arrebono possuta racquistarsi. Tu l'hai pure insegnato quel tanto
ch'a diritto doveano pensare: che se tu hai publicato, come non publicato, essi, dopo averti
letto, denno pensare di non averti letto, come tu avevi cossì scritto, come non avessi scritto:
talmente quei cotali ch'insegnano la tua dottrina, non altrimente denno essere ascoltati che
un che parla come non parlasse. E finalmente né a voi deve più essere atteso, che come ad
un che raggiona e getta sentenza di quel che mai intese.
<ONOR.> Cossì è certo, per dirti ingenuamente come l'intendo al presente. Perché
nessuno deve essere inteso più ch'egli medesimo mostra di volersi far intendere; e non
doviamo andar perseguitando con l'intelletto color che fuggono il nostro intelletto, con quel
dir che parlano certi per enigma o per metafora, altri perché vuolen che non l'intendano
gl'ignoranti, altri perché la moltitudine non le spreggie, altri perché le margarite non sieno
calpestrate da porci; siamo dovenuti a tale ch'ogni satiro, fauno, malenconico, embreaco ed
infetto d'atra bile, in contar sogni e dir de pappolate senza construzione e senso alcuno, ne
vogliono render suspetti ed profezia grande, de recondito misterio, de alti secreti ed arcani
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divini da risuscitar morti, da pietre filosofali ed altre poltronarie da donar volta a quei ch'han
poco cervello, a farli dovenir al tutto pazzi con giocarsi il tempo, l'intelletto, la fama e la
robba, e spendere sì misera- ed ignobilmente il corso di sua vita.
<SEB.> La intese bene un certo mio amico; il quale, avendo non so se un certo libro de
profeta enigmatico o d'altro, dopo avervisi su lambiccato alquanto dell'umor del capo, con
una grazia e bella leggiadria andò a gittarlo nel cesso, dicendogli: - Fratello, tu non voi esser
inteso; io non ti voglio intendere; - e soggionse ch'andasse con cento diavoli, e lo lasciasse
star con fatti suoi in pace.
<ONOR.> E quel ch'è degno di compassione e riso, è che su questi editi libelli e trattati
pecoreschi vedi dovenir attonito Salvio, Ortensio melanconico, smagrito Serafino,
impallidito Cammaroto, invecchiato Ambruogio, impazzito Gregorio, abstratto Reginaldo,
gonfio Bonifacio; ed il molto reverendo Don Cocchiarone, pien d'infinita e nobil maraviglia,
sen va per il largo della sua sala, dove, rimosso dal rude ed ignobil volgo, se la spasseggia; e
rimenando or quinci, or quindi de la litteraria sua toga le fimbrie, rimenando or questo, or
quell'altro piede, rigettando or vers'il destro, or vers'il sinistro fianco il petto, con il texto
commento sotto l'ascella, e con gesto di voler buttar quel pulce, ch'ha tra le due prime dita,
in terra, con la rugata fronte cogitabondo, con erte ciglia ed occhi arrotondati, in gesto d'un
uomo fortemente maravigliato, conchiudendola con un grave ed emfatico suspiro, farà
pervenir a l'orecchio de circonstanti questa sentenza: Huc usque alii philosophi non
pervenerunt. Se si trova in proposito di lezion di qualche libro composto da qualche
energumeno o inspiritato, dove non è espresso e donde non si può premere più sentimento
che possa ritrovarsi in un spirito cavallino, allora per mostrar d'aver dato sul chiodo,
exclamarà: - O magnum mysterium! - Se per avventura si trovasse un libro de...
<SEB.> Non più, di grazia, di questi propositi delli quali siamo pur troppo informati; e
torniamo al nostro proposito.
<COR.> Ita ita, sodes. Fatene intendere con qual ordine e maniera avete repigliata la
memoria la qual perdeste nel supposito peripatetico ed altre ipostatiche sussistenze.
<ONOR.> Credo aver detto a Sebasto, che quante volte io migravo dal corpo, prima che
m'investisse d'un altro, ritornavo a quel mio vestigio dell'asinina idea (che per l'onor e
facultà de l'ali non ha piaciuto ad alcuni, che tegnono tal animale in opprobrio, di chiamarlo
asino, ma cavallo Pegaseo): e da là, dopo avervi descritti gli atti e le fortune ch'avevo
passate, sempre fui destinato a ritornar più tosto uomo che altra cosa, per privilegio che mi
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guadagnai per aver avuto astuzia e continenza quella volta con non mandar giù per il
gorgazuolo de l'umor de l'onde letee. Oltre, per la giurisdizione di quella piazza celeste, è
avvenuto che, partendo io da corpi, mai oltre ho preso il camino verso il plutonio regno per
riveder gli campi Elisii, ma vêr l'illustre ed augusto imperio di Giove.
<COR.> Alla stanza dell'aligero quadrupede.
<ONOR.> Sin tanto che a questi tempi, piacendo al senato de gli dei, m'ha convenuto de
transmigrar con l'altre bestie a basso, lasciando solamente l'impression de mia virtude in
alto; onde, per grazia e degno favor de gli dei, ne vegno ornato e cinto de mia biblioteca,
portando non solamente la memoria delle specie opinabili, sofistiche, apparenti, probabili e
demostrative, ma, ed oltre, il giudicio distintivo di quelle che son vere, da l'altre che son
false. Ed oltre de quelle cose che in diversamente complessionati diversi corpi per varie
sorti de discipline ho concepute, ritegno ancora l'abito, e de molte altre veritadi alle quali,
senza ministerio de sensi, con puro occhio intellettuale vien aperto il camino; e non mi
fuggono, quantumque mi trove sotto questa pelle e pareti rinchiuso, onde per le porte de'
sensi, come per certi strettissimi buchi, ordinariamente possiamo contemplar qualche specie
di enti: sì come altrimente ne vien lecito di veder chiaro ed aperto l'orizonte tutto de le
forme naturali, ritrovandoci fuor de la priggione.
<SEB.> Tanto che restate di tutto sì fattamente informato, che ottenete più che l'abito di
tante filosofie, di tanti suppositi filosofici, ch'avete presentati al mondo, ottenendo oltre il
giudicio superiore a quelle tenebre e quella luce sotto le quali avete vegetato, sentito, inteso,
o in atto o in potenza, abitando or nelle terrene, or nell'inferne, or nelle stanze celesti.
<ONOR.> Vero: e da tal retentiva vegno a posser considerar, e conoscer meglio che
come in specchio, quel tanto ch'è vero dell'essenza e sustanza de l'anima.
Terza parte del dialogo.
<SEB.> Soprasediamo circa questo per ora, e venemo a sentir il vostro parere circa la
questione qual ieri fu mossa tra me e Saulino qua presente; il quale referisce l'opinion
d'alcune sette le quali vogliono non esser scienza alcuna appo noi.
<SAUL.> Feci a certa bastanza aperto, che sotto l'eminenza de la verità non abbiam noi
cosa più eminente che l'ignoranza ed asinitade: perciò che questa è il mezzo per cui la sofia
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si congionge e si domestica con essa; e non è altra virtude che sia capace ad aver la stanza
gionta muro a muro con quella. Atteso che l'umano intelletto ha qualch'accesso a la verità; il
quale accesso se non è per la scienza e cognizione, necessariamente bisogna che sia per
l'ignoranza ed asinità.
<COR.> Nego sequelam.
<SAUL.> La consequenza è manifesta da quel che nell'intelletto razionale non è mezzo
tra l'ignoranza e scienza; perché bisogna che vi sia l'una de due, essendo doi oppositi circa
tal suggetto, come privazione ed abito.
<COR.> Quid de assumptione, sive antecedente?
<SAUL.> Quella, come dissi, è messa avanti da tanti famosissimi filosofi e teologi.
<COR.> Debilissimo è l'argumento ab humana authoritate.
<SAUL.> Cotali asserzioni non son senza demostrativi discorsi.
<SEB.> Dunque, se tal opinione è vera, è vera per demostrazione; la demostrazione è
un sillogismo scientifico; dunque, secondo quei medesimi che negano la scienza ed
apprension di verità, viene ad esser posta l'apprension di verità e discorso scienziale; e
consequentemente sono dal suo medesimo senso e paroli redarguiti. Giongo a questo che se
non si sa verità alcuna, essi medesimi non sanno quel che dicono, e non possono esser certi
se parlano o ragghiano, se son omini o asini.
<SAUL.> La risoluzion di questo la potrete attendere da quel che vi farò udire appresso;
perché prima fia mistiero intendere la cosa, e poi il modo e maniera di quella.
<COR.> Bene. Modus enim rei rem praesupponat oportet.
<SEB.> Or fatene intendere le cose con quell'ordine che vi piace.
<SAUL.> Farò. Son trovati tra le sette de filosofi alcuni nomati generalmente academici,
e più propriamente sceptici o ver efettici, li quali dubitavano determinar di cosa veruna;
bandito ogni enunciazione, non osavano affirmare o negare, ma si faceano chiamare
inquisitori, investigatori e scrutatori de le cose.
<SEB.> Perché queste vane bestie inquirevano, investigavano e scrutavano senza
speranza di ritrovar cosa alcuna? Or questi son de quei che s'affaticano senza proposito.
<COR.> Per far buggiarda quella vulgata sentenza: Omne agens est propter finem. Ma
edepol, mehercle, io mi persuado che come Onorio ha dependenza da l'influsso de l'asino
Pegaseo, o pur è il Pegaseo istesso, talmente cotai filosofi sieno stati le Belide istesse, se
almeno quelle non gl'influivano nel capo.
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<SAUL.> Lasciatemi compire. Or costoro non porgean fede a quel che vedeano, né a
quel ch'udivano: perché stimavano la verità cosa confusa ed incomprensibile, e posta nella
natura e composizione d'ogni varietà, diversità e contrarietà; ogni cosa essere una mistura,
nulla costar di sé, niente esser di propria natura e virtude, e gli oggetti presentarsi alle
potenze apprensive non in quella maniera con cui sono in se medesimi, ma secondo la
relazione ch'acquistano per le lor specie, che in certo modo partendosi da questa e quella
materia vegnono a giuntarsi e crear nuove forme ne gli nostri sensi.
<SEB.> Oh in verità costoro con non troppa fatica in pochissimo tempo possono esser
filosofi e mostrarsi più savii de gli altri.
<SAUL.> A questi succesero gli pirroni, molto più scarsi in donar fede al proprio senso
ed intelletto, che gli efettici; perché, dove quelli altri credeno aver compresa qualche cosa ed
esser fatti partecipi di qualche giudicio per aver informazion di questa verità, cioè che cosa
alcuna non può esser compresa né determinata, questi anco di cotal giudicio se stimâro
privi, dicendo che né men possono esser certi di questo, cioè che cosa alcuna non si possa
determinare.
<SEB.> Guardate l'industria di quest'altra Academia, ch'avendo visto il modello de
l'ingegno e notato l'industria di quella che con facilità ed atto di poltronaria volea dar de
calci, per versar a terra l'altre filosofie, essa armata di maggior pecoraggine, con giongere un
poco più di sale della sua insipidezza, vuol donar la spinta ed a quelle tutte ed a cotesta
insieme, con farsi tanto più savia de tutte generalmente, quanto con manco spesa e
lambiccamento di cervello in essa s'intogano ed addottorano. Via via, andiam più oltre. Or
che debbo far io, essendo ambizioso di formar nuova setta, e parer più savio de tutti, e di
costoro ancora che sono oltre gli tutti? Farò qua un terzo tabernaculo, piantarò un'Academia
più dotta, con stringermi alquanto la cintura. Ma vorrò forse tanto raffrenar la voce con gli
efettici, e stringere il fiato con gli pirroni, che per me poi non exali spirito e crepi?
<SAUL.> Che volete dir per questo?
<SEB.> Questi poltroni per scampar la fatica di dar raggioni delle cose, e per non
accusar la loro inerzia, ed invidia ch'hanno all'industria altrui, volendo parer megliori, e non
bastandoli d'occultar la propria viltade, non possendoli passar avanti né correre al pari né
aver modo di far qualche cosa del suo, per non pregiudicar alla lor vana presunzione
confessando l'imbecillità del proprio ingegno, grossezza di senso e privazion d'intelletto, e
per far parer gli altri senza lume di giudicio della propria cecitade, donano la colpa alla
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natura, alle cose che mal si rapresentano, e non principalmente alla mala apprensione de gli
dogmatici; perché con questo modo di procedere sarrebono stati costretti di porre in campo
al paragone la lor buona apprensione, la quale avesse parturito meglior fede, dopo aver
generato meglior concetto ne gli animi de quel che si delettano delle contemplazioni de cose
naturali. Or dunque essi, volendo con minor fatica ed intelletto, e manco rischio de perdere
il credito, parer più savii che gli altri, dissero, gli efettici, che nulla si può determinare,
perché nulla si conosce: onde quelli che stimano d'intendere e parlano assertivamente,
delirano più in grosso che quei che non intendeno e non parlano. Gli secondi poi, detti
pirroni, per parer essi archisapienti, dissero che né tampoco questo si può intendere (il che si
credeano intendere gli efettici): che cosa alcuna non possa esser determinata o conosciuta.
Sì che dove gli efettici intesero che gli altri, che pensavano d'intendere, non intendevano,
ora gli pirroni intesero che gli efettici non intendevano, se gli altri, che si pensavano
d'intendere, intendessero o non. Or quel che ne resta per giongere di vantaggio alla sapienza
di costoro, è che noi sappiamo che gli pirroni non sapevano, che gli efettici non sapevano,
che gli dogmatici, che pensavano di sapere, non sapevano; e cossì, con aggevolezza, sempre
più e più vegna a prendere aumento questa nobil scala de filosofie, sin tanto che
demostrativamente si conchiuda l'ultimo grado della somma filosofia ed ottima
contemplazione essere di quei che non solamente non affermano né niegano di sapere o
ignorare, ma né manco possono affirmare né negare; di sorte che gli asini sono li più divini
animali, e l'asinitade sua sorella è la compagna e secretaria della veritade.
<SAUL.> Se questo che dici improperativamente ed in còlera, lo dicessi da buon senno
ed assertivamente, direi che la vostra deduzione è eccellentissima ed egregiamente divina; e
che sei pervenuto a quel scopo, al quale gli tanti dogmatici e tanti academici hanno
concorso, con rimanerti di gran lunga a dietro tanti quanti sono.
<SEB.> Vi priego (poi che siamo venuti sin a questo) che mi facciate intendere con qual
persuasione gli academici niegano la possibilità di detta apprensione.
<SAUL.> Questa vorrei che ne fusse riferita da Onorio, percioché, per esser egli stato in
ipostasi de sì molti e gran notomisti de le viscere de la natura, non è fuor di raggione che tal
volta si sia trovato academico.
<ONOR.> Anzi io son stato quel Xenofane Colofonio, che disse in tutte e de tutte le
cose non esser altro che opinione. Ma, lasciando ora que' miei proprii pensieri da canto,
dico, circa il proposito, essere raggion trita quella de' pirroni, li quali dicevano che per
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apprendere la verità bisogna la dottrina; e per mettere in effetto la dottrina, è necessario quel
che insegna, quel ch'è insegnato e la cosa la quale è per insegnarsi: cioè il mastro, il
discepolo, l'arte; ma di queste tre non è cosa che si trove in effetto; dunque non è dottrina e
non è apprension di veritade.
<SEB.> Con qual raggione dicono prima, non esser cosa de cui fia dottrina o disciplina?
<ONOR.> Con questa. Quella cosa, dicono, o devrà esser vera o falsa. Se è falsa, non
può essere insegnata, perché del falso non può esser dottrina né disciplina: atteso che a quel
che non è, non può accader cosa alcuna, e perciò non può accader anco d'essere insegnato.
Se è vera, non può pure più che tanto essere insegnata: perché o è cosa la quale equalmente
appare a tutti, e cossì di lei non può esser dottrina, e per consequenza non può esserne alcun
dottore, come né del bianco che sia bianco, del cavallo che sia cavallo, de l'arbore che sia
arbore; o è cosa, che altrimente ed inequalmente ad altri ed altri appare, e cossì in sé non
può aver altro che opinabilità, e sopra lei non si può formar altro che opinione. Oltre, s'è
vero quel che deve essere insegnato e notificato, bisogna che sia insegnato per qualche
causa o mezzo: la qual causa e mezzo o bisogna che sia occolta o conosciuta. S'ella è
occolta, non può notificar altro. Se la è conosciuta è necessario che sia per causa o mezzo; e
cossì, oltre ed oltre procedendo, verremo ad accorgerci che non si gionge al principio de
scienza, se ogni scienza è per causa.
Oltre, dicono, essendo che de le cose che sono, altre sieno corpi, altre incorporali,
bisogna che de cose, quai vegnono insegnate, altre appartegnano a l'uno, altre a l'altro geno.
Or il corpo non può esser insegnato, percioché non può esser sotto giudicio di senso né
d'intelletto. Non certo a giudicio di senso: stante che, secondo tutte le dottrine e sette, il
corpo consta de più dimensioni, raggioni, differenze e circonstanze; e non solamente non è
un definito accidente per esser cosa obiettabile a un senso particolare o al commune, ma è
una composizione e congregazione de proprietadi ed individui innumerabili. E concesso, se
cossì piace, ch'il corpo sia cosa sensibile, non per questo sarà cosa da dottrina o disciplina;
perché non bisogna che vi si trove il discepolo ed il maestro per far sapere ch'il bianco è
bianco, ed il caldo è caldo. Non può essere anco il corpo sotto il giudicio d'intelligenza,
perché è assai conceduto appresso tutti dogmatici ed academici, che l'oggetto de l'intelletto
non può esser altro che cosa incorporea. Da qua s'inferisce secondariamente che non può
essere chi insegne; né, terzo, chi possa essere insegnato; perché, come è veduto, questo non
ha che apprendere o concipere, e quello non ha che insegnare ed imprimere.
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Giongono un'altra raggione. Se avien che s'insegne, o uno senz'arte insegna un altro
senz'arte: e questo non è possibile, perché non men l'uno che l'altro ha bisogno di essere
insegnato; o uno artista insegna un altro artista: e ciò verrebe ad essere una baia, perché né
l'uno né l'altro ha mestiero del mastro; o quello che non sa insegna colui che sa: e questo
verrebe ad essere come se un cieco volesse guidare colui che vede. Se nessuno di questi
modi è possibile, rimarrà dunque che quel che sa, insegne colui che non sa: e ciò è più
inconveniente che tutto quel che si può imaginare in ciascuno de gli altri tre modi de
fingere; perché quello ch'è senz'arte, non può esser fatto artefice quando non ha l'arte, atteso
che accaderia che potesse esser artefice quando non è artefice. (Oltre che costui è simile ad
un nato sordo e cieco, il qual mai può venire ad aver pensiero de voci e di colori. Lascio
quel che si dice nel Mennone con l'essempio del servo fugitivo, il qual, fatto presente, non
può esser conosciuto che sia lui, se non era noto prima. Onde vogliono per ugual e
medesima raggione non posser esser nova scienza o dottrina de specie conoscibili, ma una
ricordanza). Né tampoco può esser fatto artefice, quando ha l'arte; perché allora non si può
dir che si faccia o possa essere fatto artefice, ma che sia artefice.
<SEB.> Che pare a voi, Onorio, di queste raggioni?
<ONOR.> Dico che in examinar cotai discorsi non fia mistiero d'intrattenerci. Basta che
dico esser buoni, come certe erbe son buone per certi gusti.
<SEB.> Ma vorrei saper da Saulino (che magnifica tanto l'asinitate, quanto non può
esser magnificata la scienza e speculazione, dottrina e disciplina alcuna) se l'asinitade può
aver luogo in altri che ne gli asini; come è dire, se alcuno da quel che non era asino, possa
doventar asino per dottrina e disciplina. Perché bisogna che di questi quel che insegna o
quel che è insegnato, o cossì l'uno come l'altro, o né l'uno né l'altro, siano asini. Dicono se
sarà asino quello solo che insegna, o quel solo ch'è insegnato, o né quello né questo, o
questo e quello insieme. Perché qua col medesimo ordine si può vedere che in nessun modo
si possa inasinire. Dunque dell'asinitade non può essere apprension alcuna, come non è de
arti e de scienze.
<ONOR.> Di questo ne raggionaremo a tavola dopo cena. Andiamo dunque, ch'è ora.
<COR.> Propere eamus.
<SAUL.> Su!
Fine del secondo dialogo.
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DIALOGO TERZO.
INTERLOCUTORI
Saulino, Alvaro.
<SAUL.> Ho pur gran pezzo spasseggiato aspettando, e m'accorgo esser passata l'ora
del cominciamento de' nostri colloquii, e costoro non son venuti. Oh, veggio il servitor di
Sebasto.
<ALV.> Ben trovato Saulino! Vegno per avisarvi da parte del mio padrone, che per una
settimana al meno non potrete convenir un'altra volta. A lui è morta la moglie, e sta su
l'apparecchi de l'execuzion del testamento, per esser libero di quest'altro pensiero ancora.
Coribante è assalito da le podagre, ed Onorio è andato a' bagni. A dio.
<SAUL.> Va in pace. Or credo che passarà l'occasione de far molti altri raggionamenti
sopra la cabala del detto cavallo. Perché qualmente veggio, l'ordine de l'universo vuole che,
come questo cavallo divino nella celeste regione non si mostra se non sin all'umbilico (dove
quella stella che v'è terminante, è messa in lite e questione se appartiene alla testa
d'Andromeda o pur al tronco di questo egregio bruto), cossì analogicamente accade che
questo cavallo descrittorio non possa venire a perfezione:
Cossì Fortuna va cangiando stile.
Ma non per ciò noi doviamo desperarci; perché, s'avverrà che questi tornino ad
cominciar d'accoppiars'insieme un'altra volta, le rinchiuderò tutti tre dentro del conclave,
d'onde non possano uscire sin tanto ch'abbiano spacciata la creazion d'una Cabala magna del
cavallo Pegaseo. Interim, questi doi dialogi vagliano per una Cabala parva, tironica,
isagogica, microcosmica. E per non passar ociosamente il presente tempo che mi supera da
spasseggiarmi in questo atrio, voglio leggere questo dialogo che tegno in mano.
Fine del terzo dialogo
De la Cabala Pegasea.
A L'ASINO CILLENICO.
Oh beato quel ventr'e le mammelle,
Che t'ha portato e 'n terra ti lattaro,
Animalaccio divo, al mondo caro,
Che qua fai residenza e tra le stelle!
Mai più preman tuo dorso basti e selle,
E contr'il mondo ingrato e ciel avaro
Ti faccia sort'e natura riparo
Con sì felice ingegno e buona pelle.
Mostra la testa tua buon naturale,
Come le nari quel giudicio sodo,
L'orecchie lunghe un udito regale,
Le dense labbra di gran gusto il modo,
Da far invidia a' dei quel genitale;
Cervice tal la constanza ch'io lodo.
Sol lodandoti godo:
Ma, lasso, cercan tue condizioni
Non un sonetto, ma mille sermoni.
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L'ASINO CILLENICO DEL NOLANO.
INTERLOCUTORI
L'Asino, Micco Pitagorico, Mercurio.
<ASINO> Or perché derrò io abusar de l'alto, raro e pelegrino tuo dono, o folgorante
Giove? Perché tanto talento, porgiutomi da te, che con sì particular occhio me miraste
(indicante fato), sotto la nera e tenebrosa terra d'un ingratissimo silenzio terrò sepolto?
suffrirò più a lungo l'esser sollecitato a dire, per non far uscir da la mia bocca
quell'estraordinario ribombo, che la largità tua, in questo confusissimo secolo, nell'interno
mio spirito (perché si producesse fuora) ha seminato? Aprisi aprisi, dunque, con la chiave de
l'occasione l'asinin palato, sciolgasi per l'industria del supposito la lingua, raccolgansi per
mano de l'attenzione, drizzata dal braccio de l'intenzione, i frutti de gli arbori e fiori de
l'erbe, che sono nel giardino de l'asinina memoria.
<MICCO> O portento insolito, o prodigio stupendo, o maraviglia incredibile, o
miracoloso successo! Avertano gli dii qualche sciagura! Parla l'asino? l'asino parla? O
Muse, o Apolline, o Ercule, da cotal testa esceno voci articulate? Taci, Micco, forse
t'inganni; forse sotto questa pelle qualch'uomo stassi mascherato, per burlarsi di noi.
<ASINO> Pensa pur, Micco, ch'io non sia sofistico, ma che son naturalissimo asino che
parlo; e cossì mi ricordo aver avuti altre volte umani, come ora mi vedi aver bestiali
membri.
<MICCO> Appresso, o demonio incarnato, dimandarotti chi, quale e come sei. Per ora,
e per la prima, vorrei saper che cosa dimandi da qua? che augurio ne ameni? qual ordine
porti da gli dei? a che si terminarà questa scena? a qual fine hai messi gli piedi a
partitamente mostrarti vocale in questo nostro sottoportico?
<ASINO> Per la prima voglio che sappi, ch'io cerco d'esser membro e dechiararmi
dottore di qualche colleggio o academia, perché la mia sufficienza sia autenticata, a fin che
non siano attesi gli miei concetti, e ponderate le mie paroli, e riputata la mia dottrina con
minor fede, che...
<MICCO> O Giove! è possibile che ab aeterno abbi giamai registrato un fatto, un
successo, un caso simile a questo?
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<ASINO> Lascia le maraviglie per ora; e rispondetemi presto, o tu o uno de questi altri,
che attoniti concorreno ad ascoltarmi. O togati, annulati, pileati didascali, archididascali e de
la sapienza eroi e semidei: volete, piacevi, evvi a core d'accettar nel vostro consorzio,
società, contubernio, e sotto la banda e vessillo de la vostra communione questo asino che
vedete ed udite? Perché di voi, altri ridendo si maravigliano, altri maravigliando si ridono,
altri attoniti (che son la maggior parte) si mordeno le labbia; e nessun risponde?
<MICCO> Vedi che per stupore non parlano, e tutti con esser volti a me, mi fan segno
ch'io ti risponda; al qual, come presidente, ancora tocca di donarti risoluzione, e da cui,
come da tutti, devi aspettar l'ispedizione.
<ASINO> Che academia è questa, che tien scritto sopra la porta: Lineam ne
pertransito?
<MICCO> La è una scuola de pitagorici.
<ASINO> Potravis'entrare?
<MICCO> Per academico non senza difficili e molte condizioni.
<ASINO> Or quali son queste condizioni?
<MICCO> Son pur assai.
<ASINO> Quali, dimandai, non quante.
<MICCO> Ti risponderò al meglio, riportando le principali. Prima, che offrendosi
alcuno per essere ricevuto, avante che sia accettato, debba esser squadrato nella disposizion
del corpo, fisionomia ed ingegno, per la gran consequenza relativa che conoscemo aver il
corpo da l'anima e con l'anima.
<ASINO> Ab Iove principium, Musae, s'egli si vuol maritare.
<MICCO> Secondo, ricevuto ch'egli è, se gli dona termine di tempo (che non è men che
di doi anni), nel quale deve tacere e non gli è lecito d'ardire in punto alcuno de dimandar,
anco di cose non intese, non sol che di disputare ed examinar propositi; ed in quel tempo si
chiama acustico. Terzo, passato questo tempo, gli è lecito di parlare, dimandare, scrivere le
cose udite, ed esplicar le proprie opinioni; ed in questo mentre si appella matematico o
caldeo. Quarto, informato de cose simili, ed ornato di que' studii, si volta alla considerazion
de l'opre del mondo e principii della natura; e qua ferma il passo, chiamandosi fisico.
<ASINO> Non procede oltre?
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<MICCO> Più che fisico non può essere: perché delle cose sopranaturali non si possono
aver raggioni, eccetto in quanto riluceno nelle cose naturali; percioché non accade ad altro
intelletto che al purgato e superiore di considerarle in sé.
<ASINO> Non si trova appo voi metafisica?
<MICCO> No; e quello che gli altri vantano per metafisica, non è altro che parte di
logica. Ma lasciamo questo che non fa al proposito. Tali, in conclusione, son le condizioni e
regole di nostra academia.
<ASINO> Queste?
<MICCO> Messer sì.
<ASINO> O scola onorata, studio egregio, setta formosa, collegio venerando, gimnasio
clarissimo, ludo invitto ed academia tra le principali principalissima! L'asino errante, come
sitibondo cervio, a voi, come a limpidissime e freschissime acqui; l'asino umile e
supplicante, a voi, benignissimi ricettatori de peregrini, s'appresenta, bramoso d'essere nel
consorzio vostro ascritto.
<MICCO> Nel consorzio nostro anh?
<ASINO> Sì, sì, signor sì, nel consorzio vostro.
<MICCO> Va' per quell'altra porta, messere, perché da questa son banditi gli asini.
<ASINO> Dimmi, fratello, per qual porta entrasti tu?
<MICCO> Può far il cielo che gli asini parlino, ma non già che entrino in scola
pitagorica.
<ASINO> Non esser cossì fiero, o Micco, e ricordati ch'il tuo Pitagora insegna di non
spreggiar cosa che si trove nel seno della natura. Benché io sono in forma d'asino al
presente, posso esser stato e posso esser appresso in forma di grand'uomo; e benché tu sia
un uomo, puoi esser stato e potrai esser appresso un grand'asino, secondo che parrà
ispediente al dispensator de gli abiti e luoghi e disponitor de l'anime transmigranti.
<MICCO> Dimmi, fratello, hai intesi gli capitoli e condizioni dell'academia?
<ASINO> Molto bene.
<MICCO> Hai discorso sopra l'esser tuo, se per qualche tuo difetto ti possa essere
impedita l'entrata?
<ASINO> Assai a mio giudicio.
<MICCO> Or fatevi intendere.
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<ASINO> La principal condizione che m'ha fatto dubitare, è stata la prima. E` pur vero
che non ho quella indole, quelle carni mollecine, quella pelle delicata, tersa e gentile, le
quali integnono li fisionotomisti attissime alla recepzion della dottrina; perché la durezza de
quelle ripugna a l'agilità de l'intelletto. Ma sopra tal condizione mi par che debba posser
dispensar il principe; perché non deve far rimaner fuori uno, quando molte altre parzialitadi
suppliscono a tal difetto, come la sincerità de costumi, la prontezza de l'ingegno, l'efficacia
de l'intelligenza, ed altre condizioni compagne, sorelle e figlie di queste. Lascio che non si
deve aver per universale, che l'anime sieguano la complession del corpo; perché può esser
che qualche più efficace spiritual principio possa vencere e superar l'oltraggio che dalla
crassezza o altra indisposizion di quello gli vegna fatto. A' qual proposito v'apporto
l'essempio de Socrate, giudicato dal fisognomico Zopiro per uomo stemprato, stupido,
bardo, effeminato, namoraticcio de putti ed inconstante; il che tutto venne conceduto dal
filosofo, ma non già che l'atto de tali inclinazioni si consumasse: stante ch'egli venia
temprato dal continuo studio della filosofia, che gli avea porto in mano il fermo temone
contra l'émpito de l'onde de naturali indisposizioni, essendo che non è cosa che per studio
non si vinca. Quanto poi all'altra parte principale fisiognomica, che consiste non nella
complession di temperamenti, ma nell'armonica proporzion de membri, vi notifico non esser
possibile de ritrovar in me defetto alcuno, quando sarà ben giudicato. Sapete ch'il porco non
deve esser bel cavallo, né l'asino bell'uomo; ma l'asino bell'asino, il porco bel porco, l'uomo
bell'uomo. Che se, straportando il giudicio, il cavallo non par bello al porco, né il porco par
bello al cavallo; se a l'uomo non par bello l'asino, e l'uomo non s'inamora de l'asino; né per
opposito a l'asino par bello l'uomo e l'asino non s'innamora de l'uomo. Sì che quanto a
questa legge, allor che le cose sarranno examinate e bilanciate con la raggione, l'uno
concederà a l'altro secondo le proprie affezioni, che le bellezze son diverse secondo diverse
proporzionabilitadi; e nulla è veramente ed absolutamente bello, se non uno che è l'istessa
bellezza, o il per essenza bello e non per participazione. Lascio che nella medesima umana
specie quel che si dice de le carni, si deve attendere respectu habito a vinticinque
circonstanze e glose, che l'accomodino; perché altrimente è falsa quella fisiognomica regola
de le carni molle; atteso che gli putti non son più atti alla scienza che gli adulti, né le donne
più abili che gli uomini: eccetto se attitudine maggiore si chiamasse quella possibilità ch'è
più lontana da l'atto.
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<MICCO> Sin al presente, costui mostra di saper assai assai. Séguita, messer Asino, e fa
pur gagliarde le tue raggioni quanto ti piace; perché
Ne l'onde solchi e ne l'arena semini,
E 'l vago vento speri in rete accogliere,
E le speranze fondi in cuor di femine.
se speri che da gli signori academici di questa o altra setta ti possa o debbia esser concessa
l'entrata. Ma se sei dotto, contèntati de rimanerti con la tua dottrina solo.
<ASINO> O insensati, credete ch'io dica le mie raggioni a voi, acciò che me le facciate
valide? credete ch'io abbia fatto questo per altro fine che per accusarvi e rendervi
inexcusabili avanti a Giove? Giove con avermi fatto dotto mi fe' dottore. Aspettavo ben io
che dal bel giudicio della vostra sufficienza venesse sputata questa sentenza: - Non è
convenevole che gli asini entrino in academia insieme con noi altri uomini. - Questo, se
studioso di qualsivogli' altra setta lo può dire, non può essere raggionevolmente detto da voi
altri pitagorici, che con questo, che negate a me l'entrata, struggete gli principii, fondamenti
e corpo della vostra filosofia. Or che differenza trovate voi tra noi asini e voi altri uomini,
non giudicando le cose dalla superficie, volto ed apparenza? Oltre di ciò dite, giudici inetti:
quanti di voi errano ne l'academia de gli asini? quanti imparano nell'academia de gli asini?
quanti fanno profitto nell'academia de gli asini? quanti s'addottorano, marciscono e muoiono
ne l'academia de gli asini? quanti son preferiti, inalzati, magnificati, canonizati, glorificati e
deificati nell'academia de gli asini? che se non fussero stati e non fussero asini, non so, non
so come la cosa sarrebe passata e passarebbe per essi loro. Non son tanti studii onoratissimi
e splendidissimi, dove si dona lezione di saper inasinire, per aver non solo il bene della vita
temporale, ma e de l'eterna ancora? Dite, a quante e quali facultadi ed onori s'entra per la
porta dell'asinitade? Dite, quanti son impediti, exclusi, rigettati e messi in vituperio, per non
esser partecipi dell'asinina facultade e perfezione? Or perché non sarà lecito ch'alcuno de gli
asini, o pur al meno uno de gli asini entri nell'academia de gli uomini? Perché non debbo
esser accettato con aver la maggior parte delle voci e voti in favore in qualsivoglia
academia, essendo che, se non tutti, al meno la maggior e massima parte è scritta e scolpita
nell'academia tanto universale de noi altri? Or se siamo sì larghi ed effusi noi asini in ricever
tutti, perché dovete voi esser tanto restivi ad accettare un de noi altri al meno?
<MICCO> Maggior difficultà si fa in cose più degne ed importanti: e non si fa tanto
caso e non s'aprono tanto gli occhi in cose di poco momento. Però senza ripugnanza e molto
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scrupolo di conscienza si ricevon tutti ne l'academia de gli asini, e non deve esser cossì
nell'academia de gli uomini.
<ASINO> Ma, o messere, sappime dire e resolvimi un poco, qual cosa delle due è più
degna, che un uomo inasinisca, o che un asino inumanisca? Ma ecco in veritade il mio
Cillenio: il conosco per il caduceo e l'ali. - Ben vegna il vago aligero, nuncio di Giove, fido
interprete della voluntà de tutti gli dei, largo donator de le scienze, addirizzator de l'arti,
continuo oracolo de matematici, computista mirabile, elegante dicitore, bel volto, leggiadra
apparenza, facondo aspetto, personaggio grazioso, uomo tra gli uomini, tra le donne donna,
desgraziato tra' desgraziati, tra' beati beato, tra' tutti tutto; che godi con chi gode, con chi
piange piangi; però per tutto vai e stai, sei ben visto ed accettato. Che cosa de buono
apporti?
<MERC.> . Perché, Asino, fai conto di chiamarti ed essere academico, io, come quel che
t'ho donati altri doni e grazie, al presente ancora con plenaria autorità ti ordino, constituisco
e confermo academico e dogmatico generale, acciò che possi entrar ed abitar per tutto, senza
ch'alcuno ti possa tener porta o dar qualsivoglia sorte d'oltraggio o impedimento,
quibuscumque in oppositum non obstantibus. Entra, dunque, dove ti pare e piace. Né
vogliamo che sii ubligato per il capitolo del silenzio biennale che si trova nell'ordine
pitagorico, e qualsivogli' leggi ordinarie: perché, novis intervenientibus causis, novae
condendae sunt leges, proque ipsis condita non intelliguntur iura: interimque ad optimi
iudicium iudicis referenda est sententia, cuius intersit iuxta necessarium atque commodum
providere. Parla dunque tra gli acustici; considera e contempla tra' matematici; discuti,
dimanda, insegna, dechiara e determina tra' fisici; trovati con tutti, discorri con tutti,
affratellati, unisciti, identificati con tutti, domina a tutti, sii tutto.
<ASINO> Avetel'inteso?
<MICCO> Non siamo sordi.
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